Wilhelm Tell è l'ultima tragedia scritta da Friedrich Schiller e venne rappresentata per la prima volta nel 1804, in un momento decisivo per le sorti politiche dell'Europa e soprattutto per le speranze e gli ideali di quanti si erano aspettati dalla Rivoluzione francese una generale palingenesi, che sarà la base delle successive istanze risorgimentali di molti paesi europei. La tragedia celebrava romanticamente il popolo e un eroe del popolo, proponendo temi di bruciante attualità.
Guillaume Tell è l'ultima opera composta da Gioachino Rossini e venne rappresentata per la prima volta nel 1829; essa contiene le questioni centrali del romanticismo: la viva presenza della natura, il senso dell'ineluttabilità e dell'impossibilità nella vicenda amorosa, il tema patriottico.
Il monumentale capolavoro rossiniano ha una partitura monumentale, quasi quattro ore di musica; a tre anni dalla precedente memorabile edizione, l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia l'ha riproposto (sempre in forma di concerto e sempre nell'originale francese, ma con meno tagli) per ricavarne un'edizione discografica.
Si badi bene: non si tratta di mera riproposizione, in quanto Antonio Pappano, in questi tre anni, ha evidentemente meditato sulla partitura, arrivando a una versione emozionante che ne sottolinea il lato romantico ma anche l'anticipazione delle istanze del Risorgimento. Casualità rossiniana, coincidenza o forse no: Guillaume Tell è in scena a Santa Cecilia proprio nel periodo in cui le Marche celebrerebbero i 150 anni dai plebisciti che decretarono l'annessione al Regno di Sardegna (settembre-novembre 1860).
Pappano dirige con anima e corpo, muovendosi in pedana come posseduto dal genio rossiniano. Mantiene sempre, per tutta la durata del concerto, un perfetto appiombo tra solisti, coro e orchestra. Orchestra che suona in modo eccellente in ogni sezione.
Naturalmente a cominciare dalla celeberrima, lunga ouverture: dodici minuti in cui Pappano dilata la prima parte, arrivando a una olimpica larghezza di tempi nitidissimi, per rendere ancor più veemente (ma raffinatissimo di colori e apporti strumentistici) la seconda parte, una cavalcata che sembra incendiare i violini attraversati da braccia e arcate veloci come saette. Nell'incipit il lamento solitario del violoncello, rassicurato dai violini, il pizzacato dei quali introduce flauto, fagotto ed oboe che si distendono sereni nel descrivere la gloria del mattino (e qui tempi e pause sono di una bellezza insuperabile); poi la tromba cambia il tempo e si avvia il finale dell'ouverture, di una forza romantica trascinante.
La prima scena completa il quadro, sinfonico e descrittivo dell'ouverture: acqua placida e alpeggio verdeggiante, echi di valli montane e salti di ruscelli, tutto reso con morbidezze di archi. Le arpe introducono il pescatore Ruoti, poi la tonalità orchestrale si scurisce all'ingresso di Guillaume, scendendo ancora nel confronto con Melcthal: fra i due, emerge subito la voce tenorile di Arnold che esprime il contrasto fra l'amore per Mathilde e le questioni patriottiche. Dopo la sospensione causata dalle riflessioni di Arnold, riprende l'azione narrativa: la felicità individuale non può prescindere dalla libertà del popolo (Guillaume canta “Je ne sais trop ce que c'est que la gloire, mais je connais le poids des fers”). Alle danze della scena VIII segue un coro impetuoso e la (prima) scena della freccia, “notre flèche est fidèle au but qui l'appelle”, freccia come sinonimo di speranza di libertà (e così si comprende ancora meglio l'episodio celeberrimo della mela sulla testa del piccolo Jemmy). Quindi inizia l'andamento procelloso che porta al finale d'atto (è noto il ridotto uso dei crescendo nel Guillaume).
Il secondo atto si apre col coro e con le campane che echeggiano in lontananza; segue l'intenso duetto tra Mathilde e Arnold, che pone la questione amore/patria tra Arnold, Guillaume e Walter, affrontata a tre. Il finale d'atto, improvviso e furioso, è preceduto da un momento sinfonico (prima della scena VII) che rende il nascente orgoglio nazionale, la necessità della libertà per il popolo (e qui: solo il popolo svizzero?).
Nel terzo atto è centrale il confronto tra l'oppressore Gesler (prima non in scena) e l'eroe libertario Guillaume (“tu peux, t'armant de sa faiblesse, avilir ce peuple”). Il quarto atto si apre con lo struggente “Asile héréditaire” di Arnold, accolto dal pubblico con tali e tanti applausi che neppure le romanze più popolari di Verdi e Puccini. Al centro dell'atto un momento sinfonico di attesa e trepidazione che contiene già in nuce il senso della vittoria: la Svizzera comincia a respirare. Eppoi il finale catartico, il momento più alto, che Pappano allarga a chiudere un cerchio di olimpica bellezza e perfezione: passato il temporale, via lo straniero. Il momento dell'Unità e della Libertà. Sì, con le maiuscole.
E maiuscole meritano gli interpreti. Della precedente edizione sono rimasti John Osborne, Frédéric Caton e Celso Albelo (oltre Davide Malvestio).
Gerald Finley è l'eroe, un Guillaume romanticamente drammatico, nobilissimo, di grande temperamento e umanità, di voce scura da vero basso che non ha esitazioni nel registro superiore che deve essere solido (Finley è sublime nel “sois immobile, et vers la terre” accompagnato dal violoncello); insomma un Guillaume perfetto eroe risorgimentale.
È risaputo che la parte di Arnold è la principale difficoltà dell'opera: John Osborne ha voce pulita e bel timbro, emissione raffinata venata da dorature amorose; affronta “Asile héréditaire” (quarto atto, dopo il secondo e il terzo assai intensi per lui) senza alcuna stanchezza con proprietà di intonazione e di accenti, fino alla chiusa incandescente “Aux armes! Aux armes!” che scatena il pubblico; ma la prestazione di Osborne non si esaurisce nel registro acuto-acutissimo, perchè è un bravo fraseggiatore nel canto declamato.
Frédéric Caton è un autorevole Melcthal, Matthew Rose un appropriato Walter, Carlo Cigni un iracondo e prevaricatore Gesler, insieme al cattivissimo Rodolfo di Carlo Bosi.
Celso Albelo giganteggia nella parte di Ruodi, piccola ma di notevole difficoltà, affrontata senza esitazioni, spingendosi nell'insidiosa zona acuta con sicurezza ed ottimi risultati grazie ad una voce luminosa che sale con impressionante facilità.
Sul versante femminile Elena Xanthoudakis è un incisivo Jemmy, Marie-Nicole Lemieux una volitiva Hedwige. Malin Byström è una Mathilde dal colore particolare, scuro, una voce di grana pastosa affascinante, imprecisa in qualche agilità ma compensata dalla notevole intensità interpretativa, che ha catturato il pubblico.
Con loro, appropriati sono stati Dawid Kimberg (Leutoldo) e Davide Malvestio (un cacciatore).
Il coro ha un ruolo determinante nell'economia dell'opera, essendo un protagonista più degli stessi protagonisti. Ciro Visco lo ha preparato in modo superbo, evidenziando una enorme gamma di intensità, dai pianissimi ricchi di screziature e vibrazioni ai fortissimi di strepitosa intensità e compattezza.
Teatro tutto esaurito, pubblico attento e rapito dal concerto; molti applausi a partire dal secondo atto per tutti, in particolare per Antonio Pappano, John Osborne e Malin Byström.