Guillaume Tell, oppressione e libertà secondo Michieletto

Guillaume Tell, oppressione e libertà secondo Michieletto
Approda sulle tavole del Massimo di Palermo l’attesissima (e contestatissima) messinscena di Guillaume Tell, ultimo capolavoro di Rossini presentata al Covent Garden nel 2015.

Una foresta di simboli

Nessuna concessione alla couleur locale, in questo Tell. Né montagne, né vallate. L’azione si svolge in un contesto cupo e chiuso, che Paolo Fantin delimita con pareti sottili e anonime e illumina parcamente con la complicità di Alessandro Carletti. Michieletto, è chiaro, non vuole raccontare la storia della ribellione svizzera al dominio austriaco nel XIV secolo. Punta dritto all’archetipo di cui quella vicenda è una delle tante, troppe manifestazioni concrete, vale a dire la drammatica opposizione tra sopraffazione e libertà, tra la volontà di prevaricare e il diritto di resistere. E perciò l’oppressore e l’oppresso, nella sua lettura magnifica e potente, non hanno identità storica definita (gli abiti di Carla Teti sono genericamente contemporanei) e rimandano a una dimensione universale.

Un senso di minaccia incombente domina l’intera rappresentazione: in ogni momento, un commando può fare irruzione sulla scena e imprimere una svolta violenta alla vita. In quest’ottica, il tanto criticato stupro nell’atto terzo, che a ben vedere esplicita uno spunto già presente all’interno della fabula (la figurante umiliata non può essere vista come l’incarnazione della figlia di Leuthold?), appare come una declinazione – urtante quanto si vuole, ma non gratuita – dell’idea registica di fondo. Ciò che per il dominatore è beffa, per il dominato è tragedia. La dignità calpestata è un’altra faccia della libertà conculcata: è la vita umana svuotata di senso, è la violazione del corpo che va di pari passo con la negazione dell’individualità senziente e autodeterminata.

Per narrare questa storia dolente, che la riscossa finale non basta a rendere meno tragica, Michieletto si serve di simboli forti e di invenzioni intelligenti. La freccia è un segno pervasivo, che spunta in fasi e con funzioni diverse all’interno della messinscena. Ma soprattutto l’albero, simulacro di appartenenza e di libertà. La pianta, abbattuta con rabbia e con scherno da un soldato alla fine del primo atto, giganteggia nel resto dello spettacolo come enorme cadavere vegetale, salvo rinascere – con effetto di grande suggestione – nelle mani degli svizzeri pronti alla lotta, trasformati essi stessi in propaggini frondose della Natura; e torna, l’albero, nell’ultimo gesto dell’opera, sotto forma di germoglio che un bambino affida alla terra per lanciare un messaggio di rinascita.

che talvolta punteggiano l’azione: bella è l’apparizione di Melcthal morto che sfila davanti al figlio per raccogliere un ultimo, impossibile abbraccio come un nuovo Anchise virgiliano; forse meno felice è invece il quadretto domestico sbozzato in un angolo mentre si prepara la prova suprema, con Edvige trepidante che apparecchia la tavola. Unica concessione all’ambientazione originaria, un secondo Tell in abiti storici e quasi fumettistici (Alberto Cavallotti) si presenta spesso sul palco per incoraggiare e dirigere, ma soprattutto – sembra – per ricordare il ripetersi delle storie nella Storia.

L’alto pregio delle voci maschili

La bacchetta di è precisa come una lama, quasi calligrafica ma al contempo capace di suscitare sonorità avvolgenti e maestose. La sua direzione è lucida e concentratissima, senza sbavature e senza cedimenti, molto più efficace – piace sottolinearlo – rispetto ad altre prove rossiniane anche recenti risultate più opache. Di alto livello il cast, a cominciare dai due protagonisti maschili: Dmitry Korchak dona pienezza di volume e limpidezza di emissione ad Arnold, mentre Roberto Frontali è un Tell vigoroso e incisivo.

Non del tutto soddisfacente è la prova di Nino Machaidze nei panni di Mathilde. Tra gli altri interpreti, tutti chiamati ad ardui impegni vocali dalla scrittura dell’ultimo Rossini, spicca il bellissimo colore di Enea Scala (il pescatore Ruodi), dotato di grande eleganza e di altrettanta sicurezza e capace perciò di avviare con speciale smalto la rappresentazione.

Il pubblico dispensa applausi incondizionati ai cantanti e al direttore, ma si spacca in due – come la mela trafitta da Tell – quando sul palco si presenta il regista.