Roma, Auditorium Parco della Musica, “Guillaume Tell” di Gioachino Rossini
LA PERFEZIONE ASSOLUTA
Ultima tragedia di Schiller, il “Wilhelm Tell” viene rappresentato per la prima volta nel 1804 in un momento decisivo per le sorti politiche dell'Europa e soprattutto per le speranze e gli ideali di quanti si erano aspettati dalla Rivoluzione francese una generale palingenesi. La tragedia, da subito diffusa e popolarissima, celebra romanticamente il popolo e un eroe del popolo, proponendo temi di bruciante attualità nei primordi dell'Ottocento.
Il “Guillaume Tell” di Rossini va in scena, attesissimo, a Parigi nel 1829 e rappresenta la punta estrema dell'adeguamento del pesarese al “nuovo”. Grand-opéra in quattro atti, il Tell accoglie alcune istanze centrali del romanticismo: il tema patriottico, la viva presenza della natura, il senso dell'ineluttabilità e dell'impossibilità nella vicenda amorosa, motivo costante nel teatro italiano successivo. L'architettura musicale è possente e dimostra come Rossini non abbia rinunciato alla sua fondamentale concezione classica del teatro.
Al debutto l'opera fu accolta con stima ma senza eccessivo entusiasmo; tuttavia finì per costituire un “testo sacro” per il teatro musicale successivo, un “classico”. In particolare il pubblico era rimasto deluso per l'assenza delle caratteristiche tipiche dell'opera rossiniana, i “crescendo” e i pezzi di bravura. Inoltre il Tell anticipava il futuro, come opera romantica capace di evocare il paesaggio montano che fa da sfondo alla vicenda. Ma i musicisti (persino l'abitualmente ostile Berlioz) e i critici avvertirono la novità e la grandezza del Tell.
Ancora giovane e al colmo della gloria, Rossini dopo Tell abbandonò il teatro, forse per l'impossibilità di andare oltre sulla strada dell'assimilazione delle nuove istanze artistiche; il “silenzio” di Rossini fu però un periodo ricco di operosità privata e segreta. Così Tell si pone come una sorta di testamento del Nostro, lasciato in eredità da un lato a Verdi e dall'altro al grand-opéra francese, nonchè ai suoi ammiratori di ieri e di oggi.
Il monumentale capolavoro ha una partitura monumentale, quattro ore di musica, ballo compreso. L'Accademia Nazionale di Santa Cecilia l'ha proposto in forma di concerto nell'originale francese integrale, si eccettuano il ballo del terzo atto ed alcuni momenti dei primi due atti.
Pappano è alla seconda esperienza rossiniana ma sembra uno specialista: la sua conduzione è semplicemente stupefacente. Il direttore è capace di creare una grande sinfonia tra voci e strumenti, mantenendo sempre l'unità della partitura con suoni di una bellezza commovente, sottolineando i contrasti tra piano e forte, evidenziando le citazioni dalla musica popolare e tutte le finezze nel descrivere la natura, lo strazio dell'amore infelice, l'anelito di libertà, la cupezza dell'oppressione, sempre con un doppio piano, intimo-romantico e civile-risorgimentale. Soprattutto i tanti momenti della partitura che descrivono la natura sono resi con una perfezione inarrivabile. Insomma tutto e nel migliore dei modi, per rendere una prodigiosa architettura musicale con i colori ed i temi appropriati. A partire da quell'ouverture, la più famosa del mondo. Fino all'altrettanto celebre finale, per anni sigla di inizio e fine trasmissioni della Rai.
I cori abbondano, disseminati nei quattro atti, finemente differenziati per spirito e forma. Nella vicenda il coro è personaggio forse più degli stessi protagonisti, divenendo anche espressione diretta della natura. Nobile e perfetto è il coro di Santa Cecilia, preparato da Norbert Balatsch, il cui ruolo primario è accentuato dalla forma di concerto.
I solisti sembrano emergere dal coro come figure di un affresco unitario.
Michele Pertusi, interprete rossiniano di riferimento, è Guillaume, una parte non particolarmente ardua dal punto di vista della tessitura ma affrontata con una grande nobiltà, come si addice al personaggio, un virtuoso, uomo ed eroe che vive in perfetta simbiosi con la “sua” natura ed il “suo” popolo. In “Sois immobile” conferma, se mai ce n'era bisogno, le sue doti (Pertusi è coraggioso, alterna queste recite a quelle del rossiniano “Mosè in Egitto” al Costanzi).
Invece una parte piena di fioriture ed agilità è quella del tenore, a tutt'oggi la principale difficoltà nella messa in scena di quest'opera. John Osborne è raffinato, ha dizione perfetta e bel timbro ed affronta la parte impervia, riservata ad un numero ristrettissimo di interpreti, vincendo la sfida con sicurezza. In “Asile héréditaire” mantiene sempre l'intonazione sofferta e quasi straziante: i do non sono pieni di petto ma neppure in falsettone e svettano sicuri e squillanti; questa commistione ha fatto impazzire il pubblico che gli ha tributato l'applauso più lungo a scena aperta, meritatissimo.
Norah Amsellem (frequentatrice di ruoli di altro repertorio, da Liù a Violetta a Mimì) è una Mathilde intensissima, lirica e nobile nella romanza “Sombre forét”; canta la bella aria “Pour notre amour” (in genere eliminato) nel terzo atto esibendo un corposo registro centrale.
Alex Esposito è un Walter dalla voce bella e scura, Laura Polverelli una Hedwige convincente. Non sono da meno gli altri interpreti, tutto appropriati e di classe: Frédéric Caton (Melchtal), Ellie Dehn (Jemmy), Darren Jeffery (Gesler), Vincent Ordonneau (Rodolfo), Celso Albelo (Ruodi), Jérome Varnier (Leutoldo).
Un'esecuzione sublime, di meglio non si poteva fare. Una serata epocale, di olimpica bellezza musicale. E il pubblico è impazzito. Fino alla commozione. Per quello che mi riguarda, alla fine l'avrei riascoltata dal principio, ancora una volta.
Visto a Roma, sala Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica, il 26 novembre 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Auditorium Parco della Musica - Sala Santa Cecilia
di Roma
(RM)