Lo spettacolo inizia a luci ancora accese, mentre gli ultimi ritardatari prendono posto in sala e alcuni astanti già seduti, incuranti di chi, in scena, sta già ballando, chiacchierano del più e del meno. I ballerini, vestiti con strane fogge (un bellissimo vestito per i ragazzi, un incrocio tra una sottana e una tunica) si dimenano in scena cercando ti attirare l'attenzione su di sé, senza riuscirci in pieno, danzano e andando in playback su alcuni brani pop (tra cui uno di Sting). Un playback poco convinto e impreciso nella sua esecuzione. Questo è il tratto distintivo di tutta la serata: l'imprecisione, l'essere sporco, come si dice in gergo, dei movimenti cioè la mancanza di precisione nell'esecuzione, sia nei movimenti dei singoli danzatori che nel loro andare all'unisono. Una scelta del coreografo naturalmente, i ballerini (le ballerine) sono tutti (tutte) in grado di eseguire i movimenti con una precisione maggiore, ma lo stile distintivo, l'impronta di Emio Greco vuole essere quella: trascurare la ricercatezza e la precisione del movimento per raggiungere, ipotizziamo, più direttamente lo spettatore.
Con il pubblico del Valle (che si azzittisce solo quando, finalmente, le luci in sala si spengono) Greco c'è riuscito egregiamente: alla fine dello spettacolo ha applaudito entusiasta. Ma per un occhio più attento alla danza che all'evento mondano le soluzioni sceniche e coreografiche che Greco mette in scena lasciano più domande di quante risposte diano.
Quali sono le idee coreografiche di Greco? Nessun movimento complesso nessuna ritmica particolare, nessuna interazione complessa con la musica, si va dal semplice danzare in sincrono allo uno scollamento tra ritmo musicale e ritmo coreografico che non sostiene un'idea coreutica a sé ma aumenta solo l'impressione generale di disordine e imprecisione di cui si diceva. Anche quando la partitura musicale scomoda, in maniera poco rispettosa, Beethoven (il primo movimento della Quinta Sinfonia (trattato
come qualunque altro tappeto sonoro interrotto a metà, e poi ripreso aumentandone e diminuendone inopinatamente il volume, incuranti dello sviluppo cromatico originale) l'interazione tra la musica e i ballerini non propone soluzioni coreutiche altre ma sempre le stesse: i danzatori non interagiscono mai l'un con l'altro creando passi a due o reagendo l'uno ai movimenti dell'altro anzi, per la stessa imprecisione di cui sopra, quando ballano insieme non sono mai perfettamente all'unisono, ma nemmeno in solitaria, per cui l'impressione di pressapochismo e imprecisione è amplificato a dismisura.
Greco non si cura di dare ai suoi danzatori (che, pure, sostengono un impegno fisico gravoso) una coreografia totale, che dia un senso al singolo ballerino come corpo a sé e, anche, come parte i un insieme organico, se in scena sono in due o in otto l'effetto coreutico è praticamente lo stesso.
I movimenti con le mani o il basculamento centrale del bacino sembrano le uniche firme del coreografo che preferisce sviluppare il suo discorso coreografico su altri versanti, meno strettamente coreutici e più inclini alla performing art anche qui però con risultati minimi e poco incisivi: l'impiego delle luci (anche come personaggio in scena con tanto di faro che, invece di essere montato su un'americana è piantato in terra, sul palcoscenico, vera e propria presenza) finiscono per ricordare (o far rimpiangere?) quelle di una normale discoteca piuttosto che usate in senso coreografico. Anche la luce che cerca tra la platea invece di illuminare la scena è una idea sviluppata con tale approssimazione da non essere quasi notata. Lo stesso vale per l'impianto teatrale della coreografia: i rumori emessi dai ballerini con la bocca (urla e respirazioni rumorose) o con il battere su parti del corpo braccia e mani, sono piccole idee che, se ripetute con insistenza senza svilupparsi in discorso divengono dei mezzucci da show televisivo. Come del tutto impermeabili a ogni comunicativa sono gli elementi scenici: l'albero spoglio innestato direttamente sul palcoscenico; le lampadine da ribalta intorno a una porta di quinta, che vengono svitate e spente dal coreografo e poi riaccese manualmente da un ballerino (?) mai visto fino a quel momento che, nel finale, dalla platea sale sul palco confondendosi coi ballerini, sono tutti elementi che non significano niente di diverso e che non contribuiscono a dare spessore a uno spettacolo che dovrebbe confrontarsi con un topos letterario di tutto rispetto quale l'inferno dantesco senza riuscire in realtà nemmeno a sfiorarlo ala lontana...
Anche la nudità impiegata, una prima timida volta quando tutti i danzatori e danzatrici si raccolgono vicini all'albero di scena denudandosi completamente (tranne le scarpette di danza...) ricordando una vecchia pubblicità degli anni ottanta, e una seconda volta, in maniera continuativa, proprio durante il movimento della sinfonia di Beethoven, vorrebbe essere evento, atto performativo ma non si incarna in un discorso e rimane una cosa a sé.
Pochi i momenti memorabili, come quando i ballerini, dopo essersi denudati tornano in scena indossando una mutanda unisex che ricorda quelle di certi affreschi di Piero della Francesca o quando, nella coreografia, mentre la musica esplode (letteralmente) i danzatori (le danzatrici) cadono come corpo morto cade. Greco si ritaglia degli spazi suoi giocando come fa lo zio coi nipoti, dirigendo, stuzzicando i ballerini usando parrucche e inintelligibili travestimenti in una maniera istrionica quando egocentrica, come fossa la diva che il pubblico è venuta a vedere e non il coreografo la cui fama che lo precede è del tutto immeritata. Almeno per questo spettacolo.
Hell, prima parte di una trilogia ispirata alla Divina Commedia, si presenta come un percorso di ricerca coreografica sull'idea culturale di inferno presuntuosamente rivendicata dal programma (il coreografo brindisino Emio Greco e il regista olandese Pieter C. Scholten infrangono molte delle connotazioni canoniche e dei luoghi comuni abitualmente associati alla nozione di inferno) approdando a un tipo di spettacolo che ha poco a che fare con la danza. Uno spettacolo a uso e consumo di un pubblico che approccia la danza con la stessa superficialità con la quale guarda la televisione.
Ma forse, chissà, era proprio quello l'inferno cui Greco voleva fare riferimento, non certo quello di Dante Alighieri del quale, in Hell non c'è nemmeno l'eco.
Visto il
13-10-2009
al
Valle Occupato
di Roma
(RM)