Piccoli fiori colorati sparsi sul palco. Qualche vecchio vinile, con i Mamas and Papas in primo piano. Profumo di incenso nell’aria e due megafoni per ricordare famosi slogan della cosiddetta “love generation”. Basta poco per rievocare il movimento hippie, nato a San Francisco nella prima metà degli anni ’60 e giunto come una ventata di novità, portatrice di quel qualcosa di rivoluzionario che spesso spaventa un mondo conservatore e pieno di paure.
Non è stata però solo una celebrazione nostalgica, quella messa in scena da Livia Grossi e Luca Pollini con il loro reading al Teatro della Cooperativa di Milano, quanto piuttosto un’analisi particolareggiata e avvincente di un fenomeno ancora molto presente nell’immaginario collettivo. In un’ora e mezza di spettacolo, l’excursus storico fatto di date, eventi e personaggi simbolo è andato di pari passo con una sottile ma costante sollecitazione alla riflessione: cosa è rimasto di quell’ideologia, basata su un concetto puro di amore, caposaldo di un diverso modo di essere e di vivere? Quanto la dura realtà ha preso il sopravvento sugli ideali? Esistono ancora dei tabù? I giovani, che ai “flower children” devono il loro riconoscimento come vera e propria categoria sociale, possono oggi dirsi liberi da codici moralistici e ruoli precostituiti? Consumismo e ipocrisia, alcuni dei mali della società a cui gli hippie si opponevano, quanto sono radicati oggi nella vita quotidiana?
Il proposito, quasi sempre ambizioso anche perché inevitabilmente divulgativo, di questo genere di spettacoli è tale da richiedere una struttura robusta della scaletta degli argomenti trattati; tuttavia, il riscontro del pubblico, spesso divertito e partecipe anche nei momenti musicali (indimenticabili le canzoni di Jimi Hendrix, Janis Joplis, Jim Morrison, giusto per citare alcune delle voci più significative di quegli anni), ha ripagato abbondantemente ogni sforzo di ricostruire e raccontare una vera e propria filosofia di vita, affascinante per quanto utopica.
Colonna sonora a parte, sulla quale è inutile spendere troppe parole - brani strepitosi, passati alla storia anche e soprattutto per i testi, custodi di messaggi universali - ottima è stata anche la scelta di interrogare i giovani d’oggi. Un piccolo reportage, inframezzato da letture di brani dell’epoca e brevi monologhi su temi come l’avvento del femminismo, per capire lo stato attuale della società: ci sono i presupposti per l’affermazione degli “hippy 2.0”, quella generazione che, attraverso la tecnologia e la rete, possa smuovere le acque melmose di una realtà intrisa, come e forse più di prima, di falsi miti e fondata su status symbol? … e se ci fosse stata una webcam sulla San Francisco degli anni ’60? Gli hippie avrebbero cambiato il mondo?