Uno stretto legame corse fra Igor Stravinskij e Venezia, tanto che, dopo la morte avvenuta a New York il 6 aprile del 1971, il suo corpo venne portato nel cimitero dell'isola di San Michele, dove riposa accanto all'amico Djagilev.
La Fondazione La Fenice ha inteso celebrare la ricorrenza del cinquantenario della morte sia offrendo un'esecuzione de Le sacre du printemps diretto da John Axelrod, sia mettendo in scena al Teatro Malibran – sede 'minore' della fondazione, la cui fossa orchestrale è stata recentemente dotata, approfittando della forzata pausa pandemica, di un nuovo assetto utile a chiudere il golfo mistico e dilatare lo spazio scenico – quel piccolo, grande capolavoro cameristico che è L'histoire du soldat, con una diretta streaming (ancora visibile nella scheda dello spettacolo - sezione VIDEO), dopo la prima del 16 aprile.
Com'è noto, un esperimento teatrale dai tratti innovativi, ideato in collaborazione con lo scrittore Charles-Ferdinand Ramuz, volutamente essenziale e facilmente trasportabile in vista di una tournée svizzera che mai ci fu. Solo un'unica apparizione in teatro, a Losanna nel settembre 1918, sponsorizzata dal mecenate Werner Reinhart cui per ringraziamento Stravinskij dedicò i Tre pezzi per clarinetto.
Un mito che non tramonta
Alla base de L'histoire du soldat sta un racconto fiabesco di Aleksandr Afanas'ev, dove si recupera il popolaresco e diffuso mito dell'anima venduta al diavolo in cambio di denaro, donne e potere. Pochi i personaggi: il Narratore, Joseph il soldato, il Diavolo e la Principessa resa da una danzatrice. Non vi è canto, solo recitazione e coreografia, con brevi scene intercalate da fulminanti incisi musicali che in seguito Stravinskij raccolse in una fortunata suite.
L'ensemble strumentale, cui è affidata questa serie di pezzi dalla più varia ispirazione – ritmi e combinazioni dal jazz al ragtime, dal valzer al tango - prevede sette soli membri. Nel caso presente, ascoltiamo altrettanti vigorosi componenti dell'Orchestra veneziana, vale a dire Roberto Baraldi (violino), Matteo Liuzzi (contrabbasso), Simone Simonelli (clarinetto), Guido Guidarelli (tromba), Giuseppe Mendola (trombone), Al Ikeda (fagotto), Claudio Cavallini (percussioni). Li troviamo guidati con molta cura e passione da un giovane maestro, Alessandro Cappelletto.
Un allestimento molto, molto minimale
In questo pauperistico allestimento, i personaggi parlanti sono riuniti nella persona dell'attore e regista Francesco Bortolozzo, che ha curato l'adattamento italiano del testo. Onere eccessivo, per una voce sola. Lo vediamo di lato all'ensemble, dove si avvale di pochissimi oggetti di scena: una poltrona, un tavolo, una sedia, un leggio. A dire il vero, né la scarna drammaturgia, né la dimessa, sbrigativa recitazione ci sono sembrate memorabili, specie se messe a confronto di quanto visto altrove. Come la recente, rutilante versione dell'Alighieri di Ravenna, curata ed interpretata da Luca Micheletti, da poco riproposta da RAI 5.
I costumi portano la firma di Marta Del Fabbro, le luci sono di Fabio Barettin; gli interventi danzati si devono a Emanuela Bonora. Per inciso, lo spettacolo era andato in scena già lo scorso agosto, nel giorno della nascita di Peggy Guggenheim, l'estrosa collezionista americana cui si deve l'aver consegnato a Venezia una delle più importanti raccolte d’arte contemporanea. E che fu grande amica di Igor e Vera Stravinskij.