THE HISTORY BOYS

La classe di storia

La classe di storia

C’è sicuramente dell’autobiografia nella sfida di Bennet alle imperfezioni della storia, o per meglio dire alle imperfezioni del suo insegnamento nei college inglesi, proposta in The History Boys e raccolta, mantenendo il titolo originale, da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni in un allestimento felicemente iniziato nel 2010 e ancora oggi sui palcoscenici d’Italia. C’è dell’autobiografia, perché l’autore de La cerimonia del massaggio, forse il suo titolo più reperibile nelle nostre librerie, prima di dedicarsi pienamente alla letteratura e al teatro ha attraversato, per l’appunto, quel difficile baratro che è l’insegnamento della storia ad adolescenti in crisi di identità, incerti nella costruzione di un proprio profilo culturale, incapaci di far fronte ad una vitalità che ondeggia tra eccessi emozionali e bizzarrie ormonali. Dunque, Bennet sa di cosa parla? Probabilmente sì, ma forse è questo il limite stesso della pièce. I clichè più stantii, infatti, sono sempre in agguato quando si tenta di calare domande universali (in cosa consiste la verità storica? Di quali strumenti servirsi per trasmetterla?) nei limiti oggettivi di un microcosmo (un college di Sheffield del 1985), ma i più pericolosi, certo, sono sempre quelli di chi questo microcosmo l’ha vissuto per davvero fino a farlo diventare centro di una speculazione a tratti imbarazzante. Dunque, gli stereotipi ci sono tutti: il preside preoccupato unicamente del successo performativo della propria scuola; l’insegnante ribelle alle regole e custode di una cultura scevra da fini utilitaristici (Hector); Mrs Lintott, tutta contenuti e solide basi, frutto di un lavoro certosino e faticoso, ma poco premiante; il professore giovane, ambizioso e cinico (Irwin) che conosce i meccanismi del successo e sa come afferrarli pur parlando di Tudor, Stalin o prima guerra mondiale; una classe, infine, vivace ma affiatata, che salta sulle sedie e calpesta i libri, ma si lamenta perché il professor Irwin, appena arrivato, lancia i quaderni e rischia di sciuparli, composta, secondo un clichè crescente, dal secchione (Posner) che conosce a memoria tutte le definizioni e che, come non bastasse, è anche ebreo ed omosessuale, in pratica un nerd da telefilm, al grassone (Timms) che fa dell’autoironia la sua arma migliore, poi c’è quello in crisi spirituale ma senza grandi afflizioni personali (Scripps) e infine lo sciupafemmine (Dakin) di cui sono tutti innamorati, Posner, Hector, Fiona, segretaria e amante del preside, e che a sua volta è attirato, più intellettualmente che sessualmente, dal professor Irwin, giovane intellettuale che non ha ancora fatto i conti con la sua omosessualità. La regia di De Capitani/Bruni, attenta a far muovere i suoi dodici attori in uno spazio sapientemente scandito da due fronti opposti, la scrivania del preside alla destra di chi guarda e gli armadietti dei ragazzi alla sinistra, mentre al centro il vorticoso movimento delle sedie e della cattedra crea le più diverse costruzioni, indulge a questi cliché con continui ammiccamenti e una recitazione che non nasconde nulla, ma esplicita gesti e battute chiaramente indirizzati al favore del pubblico. La scena in cui Dakin, sorpreso perché Scribbs non si masturba, spiega a gran voce e mima con gesti incontrovertibili di non volersi trovare nei paraggi nel momento in cui il membro virile del suo amico esploderà in polluzioni a cascata, è solo l’ esempio di un’enfasi che non si placa mai in tutte le tre ore di spettacolo. Lo stesso valga per le continue imitazioni del vizietto di Hector: il vecchio professore accompagna a turno gli studenti che gli piacciono di più a casa e sulla sua moto si lascia andare a palpeggiamenti. Vizietto che sarà la causa del suo pensionamento anticipato, dal momento che il Preside lo utilizzerà come ricatto per sbarazzarsi di un insegnante i cui metodi non portano ai risultati attesi, facendo al contempo spazio all’ambizioso Irwin, che invece promette facili traguardi per l’accesso a Oxford e Cambridge. Il verso che i gli studenti in scena fanno ad Hector e ai suoi disinvolti approcci sessuali è quasi il leit motiv di tutto lo spettacolo, proponendosi con una ripetitività talvolta ai limiti della noia. Lo spettacolo, tuttavia, sostenuto da un palmares di tutto rispetto (Premio Ubu 2011 come miglior spettacolo, Premio Ubu nuovi attori under 30, Premio Ubu miglior attrice non protagonista, Ida Marinelli, nell’edizione di quell’anno, premio Le Maschere del Teatro Italiano nel 2012 come migliore regia) si presenta perfettamente collaudato, la classe degli otto studenti si muove con fluidità e all’affiatamento dei personaggi corrisponde quello degli attori in scena, Elio De Capitani dà vita ad un Hector dall’istinto clownesco anche se fin troppo funambolico, Marco Cacciola è un Irwin a volte più stanco che cinico, il preside di Gabriele Calindri si arrampica su un registro recitativo quasi sempre urlato e accademico, la povera Mrs Lintott, schiacciata da un divorzio mai risolto, è interpretata da Debora Zuin che riesce a mantenere un tono fatalista, a metà tra il lamento e la continua recriminazione, costantemente in linea con il proprio personaggio. Risate e divertimento per gli spettatori in un Teatro Goldoni di Venezia pieno in ogni ordine di posti e con generosi applausi a fine rappresentazione.
 

Visto il 10-03-2013
al Carlo Goldoni di Venezia (VE)