HOMO HOMINI LUPUS

E Magnarelli non smette di sorprendere.

E Magnarelli non smette di sorprendere.

Vedere uno spettacolo di Giovanni Magnarelli vuol dire, prima ancora che riconoscerne la cifra artistica, conoscerla, con meraviglia e ammirazione, perchè Giovanni non si ripete mai e intraprende in ogni nuovo spettacolo strade drammaturgiche nuove. Anche il minimo comune denominatore dei suoi assoli, la sua presenza di attore e performer, strabilia, perchè Magnarelli è camaleontico e sa mutare aspetto (basta una barba che scompare) e possanza (grazie al sapiente gioco di postura) per diventare il performer più adatto ai diversi spettacoli che allestisce e crea.
Stavolta, dopo la rivisitazione di un classico, MKBèT, 2009, e la riproposizione di una coreografia altrui, Herr Glass, 2010, abbiamo avuto la fortuna di vedere Homo Homini Lupus una istallazione-performance  dai risultati sorprendenti che già nel suo titolo evoca una presa di posizione e(s)t(et)ica precisa e chiara.
Secondo una celebre espressione latina (mutuata da Plauto) impiegata dal filosofo Thomas Hobbes nel XVII secolo l'uomo è un lupo per l'uomo perchè i rapporti tra esseri umani sono dettati dall'egoismo e dall'istinto di sopravvivenza e dunque di sopraffazione. Questa constatazione portava Hobbes a ragionare sul diritto naturale sul quale si basa la formazione giuridica dello Stato. Magnarelli invece parte da questa constatazione per analizzare la società contemporanea, massificata e atomizzata, e allestire uno spettacolo nel quale incarna tanti esseri umani, uomini e donne, nella loro condizione di individualità inestricabile.  Siamo delle monadi, dice il performer,  e per comunicare con i nostri simili abbiamo bisogno dell'artificiosità del linguaggio, un linguaggio mediato dalla civiltà delle immagini, la cui comunicazione non è a doppio senso e dunque non è tale reale unidirezionalmente sbilanciata contro l'uomo. Una immagine  che nascendo come finestra attraverso la quale ritagliamo porzioni di mondo abbiamo finito per assumere come realtà tout court. Una immagine consumata oggi nemmeno più tanto nella  maniera collettiva della tv (che familizzò quella di massa del cinema) ma in quella individuale del monitor, lo stesso tramite il quale oggi abbiamo tutti un accesso privilegiato alla realtà, comunicando e immettendo e traendo informazioni, il sottoscritto che scrive queste note e voi che le leggete compresi.
Partendo da questa solitudine esistenziale dell'uomo (separato piuttosto che unito dalla tecnologia) Magnarelli allestisce uno spettacolo allo stesso momento semplice e complesso.  
Homo homini lupus si apre con un incidente simulato, un inciampo che  fa cadere a terra il suo unico interprete, mentre le luci si spengono.
Prima Magnarelli ha guidato il pubblico in sala, ha finto di armeggiare con i dispositivi dell'allestimento, in una scena assai scarna: una sedia, un microfono poggiato a terra, un monitor da pc posto a favore di interprete (noi spettatori ne vediamo il retro), e una candela che, assieme alle luci intermittenti del monitor, una volta accesa, costituiranno l'unica fonte di luce per l'intera performance.
Dalla caduta iniziale (caduta fisica che segna la nostra mortalità ma anche caduta morale secondo le coordinate ineluttabilmente cattoliche di un peccato originale quale disperato tentativo di dare ragione della nostra mortalità) emerge un uomo nudo (Magnarelli ha la capacità di spogliarsi senza farlo notare...) che si muove in una novella caverna di Platone, facendo le prime esperienze di un dispositivo complesso come quello iconico. Il monitor, feticcio della realtà, all'inizio vomita la sua luce sul performer (s)velandolo alla vista del pubblico. La nudità prima ancora di essere simbolica è proprio quella che ricorda la condizione umana precedente al linguaggio. Ancora mortalmente animale ma non più protetto naturalmente da madre natura l'uomo nudo costruisce da sè zoccoli e pelliccia e al contempo scopre il linguaggio col quale riesce a manipolare la realtà della quale il linguaggio stesso costituisce la più raffinata forma di rappresentazione al contempo concreta e simbolica.
Il primo dialogo tra il performer e il monitor avviene in una lingua da divinità numinosa, una voce profonda e incomprensibile, alla quale il performer risponde. Il pubblico non capisce perchè quel che conta è l'artificiosità di ogni lingua, che è un costrutto umano non esistente in natura.
Tutti i dialoghi dello spettacolo, anche se sono sempre disturbati e sopraffatti da musica, rumori e altri accidenti, sono in lingua inglese, cioè una lingua che ha un significato anche se, non essendo la nostra, noi non lo capiamo (gli spettatori italiani meno di altri data la nostra mancanza di conoscenza delle lingue straniere). Questa lingua a noi sconosciuta eppure universale, che ha colonizzato il mondo occidentale, si erge come maceria di un significato che ormai non ha più importanza di per sé ma solo perchè in essa possiamo riconsocere un modello narrativo, da palinsesto, da format televisivo-cinematografico.
Magnarelli ne dà sfoggio interpretando, in un serrato dialogo con il monitor, una serie di situazioni rivestendosi e spogliandosi nel disperato tentativo di rimanere conforme allo standard narrativo suggerito dal monitor. Un monitor che mostra solo al performer le immagini mentre noi spettatori ne vediamo solo il riflesso luminoso sul suo corpo e ne sentiamo il sonoro, quando c'è.
Un sonoro complesso, fatto, oltre che dalle frasi in inglese, da brani musicali di diversa estrazione (dalla musica classica al musical) tra cui spicca l'inconfondibile sigla dei Looney Tunes che, ironizzano sulla condizione di marionetta - cartone animato dei personaggi che prendono vita grazie al performer secondo i suggerimenti del monitor. Personaggi che Magnarelli attore sta interpretando per un pubblico ma che il Magnarelli personaggio interpreta per il monitor o grazie al monitor.
Una soluzione elegante e intelligente che mostra, invece di limitarsi a dire, quel che di solito avviene quando noi siamo davanti al monitor, al posto del performer.
La realtà performativa del teatro, nella quale siamo spettatori di una performance è impiegata come correlativo oggettivo del processo di costruzione di significato della realtà esterna (quella vera, al di fuori del teatro), una realtà che è mediale (di tutti i mass media)  e mediata (dalla tecnologia).
Monitor, mass media e linguaggio sono strumenti di senso (di significato) tramite i quali non solo interpretiamo il mondo (esterno) ma ce lo rappresentiamo  confondendo la mappa con il territorio, la rappresentazione con il rappresentato, dando più credibilità di verità alle nostre rappresentazioni che al mondo esterno colto nella sua sovversiva incomprensibilità.
Il momento di massima apoteosi di questo discorso-percorso è raggiunto dalla performance quando Magnarelli, di nuovo denudato, volta il monitor posto a terra,  a favore di pubblico, sdraiandosi dietro di esso, mentre il monitor mostra un'immagine registrata di Magnarelli sdraiato a terra.
L'immagine mostrata dal monitor non è già quella colta in diretta, con l'ausilio di una telecamera a circuito chiuso, di Magnarelli sdraiato qui e ora, ma una registrazione precedente che è del tutto efficiente e sufficiente come sostituto del vero Magnarelli sdraiato per terra, che lo spettatore non vede perchè occultato dal monitor.
Il risultato è lo stesso: il monitor come fosse trasparente, ci mostra il performer e noi spettatori,  pur sapendo la vera natura di quella immagine, la reputiamo abbastanza simile a quella reale per accettarla come sostituto verosimile. In realtà è un effetto speciale e la retorica di verosimiglianza che ce la fa ritenere verosimile non ha nulla a che fare con la vera natura di ciò che le immagini rappresentano, ma solo con la loro conformità alle consuetudini narrative.
Consuetudini che sono normative (obbligatorie) e dirimenti costringendo la realtà a calzare in quelle strutture e non, come dovrebbe essere, lasciare che sia la realtà a modificare le strutture narrative per cogliere quel che nella realtà c'è di indeterminato e cangiante.
Così all'inizio non vediamo il performer occultato dal monitor, ma solo l'immagine sostitutiva, la cui prima necessità è la presenza del monitor stesso, senza il quale saremmo liberi di vedere il performer in carne ed ossa (in una squisita metafora che vale più di mille parole) per cui la necessità dell'immagine è autoreferente e si sostituisce alla realtà senza un vero bisogno.
Poi Magnarelli si alza e si porta il monitor sulle spalle mentre su di esso prende forma l'immagine del pianeta Terra, in una rilettura moderna e di immediata comprensione del mito di Atalante, mentre il corpo performativo dell'attore, esposto a una nudità generosa quanto priva di malizia, diventa l'oggetto di interesse del monitor, che mostra immagini che ritraggono parti del suo corpo:  mani-occhi-bocca-nuca-piedi-pene-glutei, tute trattate, come in realtà sono, come intercambiabili parti del corpo umano, mentre il performer  cerca di posizionare il monitor in corrispondenza della parte del suo corpo in quel momento mostrata. cercando di far combaciare corpo e parte di corpo nel monitor.
L'emozione e la tensione raggiunte dalla performance in questo momento è pari solo all'eleganza dell'idea e della sua esecuzione.
Un breve momento di agnizione del meccanismo di sostituzione e rappresentazione che è preceduta e seguita dalla narrazione-interazione (a)verbale del performer col monitor.

La nostra storia esistenziale di esseri umani dunque, suggerisce Magnarelli, sembra caratterizzata da una continua straziante ricerca di adeguare noi stessi ai limiti dei nostri stessi strumenti cognitivi invece di adeguare loro alla realtà con la quale, loro tramite, interagiamo.
I personaggi che Magnarelli interpreta allora, maschili, femminili, alla disperata ricerca di un contatto, di un dialogo, di un affetto e che il performer porta in scena con devozione ed energia, sono guizzi di una umanità la cui vita è un lampo tra un prima e un dopo di morte dalla quale forse proveniamo e alla quale sicuramente (ri)torniamo.
Così alla fine della performance l'Uomo, emerso da milioni di anni di evoluzione, torna nell'oblio da cui è nato, illudendosi di andare oltre bloccato invece da un ostacolo banale (la sedia) dopo aver assaporato un attimo di felicità, vera e fittizia al contempo (andando in playback sulle note di  Singing In The Rain).
La bravura di Magnarelli non è solo quella, notevole, dell'interprete, che si alza e cade e si sveste e si riveste, e danza e monologa e dialoga, e ripete, e si incaponisce, e scompare e ritorna, offrendosi nudo allo sguardo dello spettatore (o del monitor?) ma anche quella del regista, che con il solo ausilio di una candela  e le luci del monitor, ora bianche ora azzurrine ora rosse, riesce a vestire il suo corpo di un chiaroscuro caravaggesco elegante e delizioso allo sguardo.
Forse dilungandosi appena troppo sulle strategie di retorica narrativa che si fondano sulla ripetizione seriale delle situazioni, che il performer interpreta fino allo sfinimento, (d'altronde non è forse questa la cifra esistenziale di ognuno di noi?) a discapito di elementi visivi suggestivi quali il gioco del monitor o quello delle luci sul corpo del performer, Homo Homini Lupus è uno spettacolo-performance-allestimento - mai le parole sono inadeguate come in questo caso - di eccezionale forza, energia e spessore, ben concepito, allestito e interpretato.
Uno spettacolo da vedere per lasciarsene sedurre e magari tornare a rivedere ancora...

Visto il 24-11-2011
al TeatroInScatola di Roma (RM)