HOMOCAUST

Uno spettacolo dimenticabile.

Uno spettacolo dimenticabile.

Non si capisce proprio quale sia l'urgenza narrativa di Homocaust, lo spettacolo che Stinco ha presentato nel 2010 sotto forma di corto teatrale (vincendo il premio ...) e che adesso presenta in versione lunga al teatro Lo spazio di Roma. Fra tutti gli esempi possibili di persecuzione contro le persone omosessuali Homocaust sceglie quello più ingombrante dei campi di concentramento  nazisti.
Ingombrante perché i dettagli sulle torture delle SS ai danni dei corpi degli omosessuali (descritti nello spettacolo da voci recitanti registrate) non riescono a sottrarsi ad un confronto con l'immaginario collettivo della shoà dal quale non possono che uscire sminuiti non fosse altro per l'esiguo numero degli omosessuali morti nei lager, che lo spettacolo indica in settemila (cifra che non sappiamo dove Stinco trovi visto che il numero esatto è uno degli aspetti più controversi di tutta la storia delle persecuzioni degli omosessuali fatte dai nazisti), contro i sei milioni di morti tra gli ebrei.

Sarebbe stato forse meglio accennare, piuttosto che alle unghie strappate o agli intestini dilacerati, al fatto che gli omosessuali sopravvissuti ai lager, essendo considerati criminali ordinari e non vittime del regime nazista, non ottennero risarcimento alcuno, nemmeno quello morale, tornando, una volta liberati, nell'anonimato e nell'invisibilità in cui erano costretti a vivere a causa dello stigma contro di loro. Uno stigma che nel secondo dopoguerra era molto più forte di oggi ma che purtroppo è ancora be radicato nella società contemporanea dove ancora oggi lesbiche e gay vengono discriminati, uccisi o indotti al suicidio.

Per parlare dell'eccidio degli omosessuali per mano nazista Stinco intraprende la strada del teatro non di parola che non può dirsi davvero  ambiziosa se non nella misura dello scarto tra le sue intenzioni e i  risultati ottenuti, davvero modesti.

I quattro attori,  infatti, mancano completamente dell'intensità coreutica e scenica necessarie per emozionare e restituire allo spettatore, con la sola presenza fisica del loro  corpo, senza l'ausilio della parola, la disperazione degli internati, l'orrore di una delle tante declinazioni dell'odio nazista contro chi era considerato, a vario titolo, non ariano.

All'assenza della parola non corrisponde però una ricerca drammaturgica precisa. I quattro interpreti, pur se generosi nel donarsi completamente allo spettacolo, anche con dei pudichi nudi integrali (che non giustificano l'avvertenza in cartellone e nel comunicato stampa della presenza di nudi integrali)  sembrano spaesati, senza essere guidati da una vera idea di come muoversi o cosa fare sul palco nel quale sembrano capitati per caso, sostanzialmente incapaci di prodursi in un movimento del corpo preciso, pulito, del tutto privo di quel nitore formale, visivo, plastico, dal quale emerga chiara  l'intenzione, il senso, o anche solamente un ritmo.
Nè le luci (che non sono mai impiegate a fini dramamturgici) o i costumi (troppo veristici in confronto alla scena assente e dunque astratta) o le musiche (che fungono solo da tappeto sonoro) aiutano a tessere, assieme alla performance dei quatto interpreti, un discorso anche antinarrativo ma che sappia almeno instillare nello spettatore la curiosità o l'emozione per cui la mancanza della parola, dopo i primi 15 minuti, diventa l'elemento più evidente della messa in scena.
Quele rare occasioni non si discostano da tentativi criptici e inefficaci come il rumore elettrico che ogni tanto sovrasta la musica al quale i quattro performer reagiscono in maniera totalmente diversa, chi accasciandosi come si trattasse del segno di una tortura fisica, chi guardando spaesato a destra e manca, non si capisce se per esigenze di scena o tradendo un sentimento dell'attore e non del personaggio. Anche il loro continuo muoversi in circolo dà solo l'impressione di un'attesa di qualcosa che deve avvenire e non avviene mai, di uno spettacolo che deve iniziare e non comincia mai.
Incapace di attestarsi davvero in un allestimento scenico che trasduca in un movimento, se non coreutico almeno coreografato, emozioni e sensazioni del vissuto omosessuale di sterminio e odio nazista,  Homoaust scivola nel  bozzettismo dei tipi di omosessuale che non assumono mai la statura del simbolo né lo spessore del personaggio, rimanendo allo stato larvale della macchietta. Dall'ennesimo gay effeminato (con tanto di rossetto) al prete, dal padre di famiglia al giovane gay timido a quello stuprato (e allo stupratore) l'omosessualità di Stinco cade, per l'ennesima volta, nel cortocircuito lessicale  del sesso, presentando l'omoerotismo come pura questione di sesso e non, come è in realtà, anche come affettività, emozione, sentimento. Concetto che Eric James Borges, il ragazzo 19enne statunitense, morto suicida nel dicembre del 2011 per sottrarsi alle continue vessazioni della civile America del Nord, ha saputo esprimere in maniera semplice e precisa: Sono spiritualmente, emotivamente e sessualmente attratto  dagli uomini.

Stinco persevera in una sola di queste coordinate scegliendo anche per l'unico momento di teatro di parola presente nello spettacolo la citazione di una scena di Bent (t.l. piegato, cioè con il sedere nella giusta posizione...), il datatissimo dramma di Martin Sherman del 1979, nella quale due gay internati in un lager nazista, pur se fisicamente isolati in baracche diverse, simulano una copula per affermare il proprio specifico in barba al sentimento e alla spiritualità.

Ma al di là e di prima di tutti questi appunti Homocaust delude, e infastidisce,  perchè non sa veicolare attraverso la fisicità incerta dei suoi interpreti, quell'afflato squisitamente umano che fa dell'amore che non osa pronunciare il suo nome una delle naturali varianti della sessualità umana, che Stinco non sa restituire al suo pubblico nemmeno con uno sguardo veramente erotico.


Viene spontaneo domandarsi a quale pubblico Homocaust si rivolga non proponendo nulla su cui riflettere o su cui emozionarsi a chi è già informato su questi argomenti e inducendo il pubblico ignaro delle persecuzioni contro i gay (e le lesbiche, eterne dimenticate) a credere che queste si esauriscano con la fine dell'era nazista mentre, purtroppo, sono continuate nel tempo (campi di concentramento per omosessuali ci sono stati negli anni settanta nella Cuba castrista) sino al nostro presente. Ancora oggi in ben 91 nazioni al mondo l'omosessualità è un reato condannato con il carcere e, in sei di quegli Stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Nigeria, Mauritania, Sudan, Yemen), con la pena di morte.

Un parallelo tra la condizione dei gay internati nei lager nazisti con quelli imprigionati oggi in questi paesi avrebbe restituito l'umanità degli omosessuali morti per mano nazista in maniera molto più efficace di una rappresentazione retorica e fisicamente impacciata che porta in scena gli internati vestendoli coi proverbiali pigiami a righe e i triangoli rosa

Visto il 18-01-2012