Senza parole eppure pienamente espressiva; tenera, gioiosa, struggente e allo stesso tempo piena di comicità, humor nero e anche di satira nei confronti dei tipi umani, portata avanti con rapidità di cambi d’abito e tempi perfetti: questa è “Hotel Paradiso”, una pièce originale e divertente portata in scena dalla magistrale compagnia tedesca Familie Floez (nome di fantasia derivato da un loro vecchio spettacolo) e che, ieri sera, ospite internazionale del Teatro Stabile d’Abruzzo di cui ha aperto la stagione a L’Aquila, ha entusiasmato il pubblico raccogliendo lunghissimi applausi in un Ridotto del Teatro Comunale al completo.
Un hotel con una fonte miracolosa accoglie i turisti sulle Alpi. Un’atmosfera magica. Ma la magia non sta solo nei fatti raccontati. E neanche nell’ambientazione romantica sulle montagne, con aria pulita, tranquillità e un paesaggio naturale mozzafiato. La vera magia di questo spettacolo sta in qualcos’altro. Gli interpreti, infatti, erano praticamente degli esilaranti pupazzi umani, cioè degli attori dal volto coperto da una maschera con fattezze umane, i cui atteggiamenti e le cui vicissitudini, facevano pensare a dei pupazzi creati per divertire tanto per un pubblico di adulti che di più piccini.
La maschere in gommapiuma che coprono il volto dei preparatissimi interpreti diretti da Michael Vogel, rappresentano dei tipi umani diuna strana società, con i loro vizi e le loro virtù, a cui capitano delle situazioni particolari: il receptionista romantico, l’anziana che manda avanti l’hotel dopo la morte del marito (a cui è dedicato un angolo votivo da onorare costantemente), il cuoco-macellaio (nella cui cucina nessuno entra… e chi lo fa da vivo, non ne esce), l’intransigente direttrice, la cameriera col vizio della cleptomania, un facchino, una ospite molto carina, uno sportivo, un guru orientale, un ladro, un ispettore di polizia e il suo assistente e, persino (non poteva essere altrimenti, visto l’incredibile verificarsi degli eventi), un ispettore d’alberghi che priva l’hotel delle sue 4 stelle mandano, per lo shock, l’anziana vedova a raggiungere il suo amato defunto consorte. Hanno ricreato un vero e proprio microcosmo sociale che fa pensare alla vita e alla gioia di vivere di agire, anche se ingenuamente, e abituati a risolvere i problemi… e poi passare oltre senza tornarci su.
Una gran parte della magia e della bravura di questa singolare “famiglia” di artisti risiede in due cose, rapidità di cambi d’abito e espressività corporea, accompagnati da tempi perfetti.
Per quanto riguarda il primo punto, c’è da restare seriamente stupiti. Certo, i tedeschi sono sempre stati famosi per la competitività sul posto di lavoro. Ma meraviglia comunque che in 4 (alla fine dello spettacolo a raccogliere gli applausi sono usciti Anna Kistel, Sebastian Kautz, Thomas Raschere Frederik Rohn) siano riusciti a dare corpo a un folto pulviscolo di personaggi diversi, tra impiegati dell’hotel, ospiti e non, che uscivano e rientravano in scena poco dopo alternandosi ad un ritmo vertiginoso e sempre crescente.
Per quanto riguarda il secondo punto, c’è da fare una riflessione seria sulla meraviglia che provoca, a livello di percezione attoriale, questo spettacolo e sulla recitazione teatrale in genere.
I prestanti attori della Familie Floez, come già accennato, indossavano, a seconda dei vari personaggi che portavano in scena (data la particolarità dei costumi, direi che li portavano materialmente in scena!), delle maschere dalle fattezze umane (realizzate da Thomas Rasher e Hajo Schuler) a coprire i loro volti. Ed è sorprendente come i quattro attori, pur avendo, quindi, un volto finto che rimaneva immobile, siano riusciti senza sforzo a trasmettere ogni singola emozione derivata dagli innumerevoli colpi di scena.
Grazie a rapidissimi cambi di maschera e costume e una perfetta capacità di far parlare il corpo, (i Floez) riescono a far cambiare espressione alla fissità della maschera, scatenando le risate e gli applausi di una sala gremita. É stato incredibile (e interessante) vedere come le maschere, sostenute dal corpo degli attori, acquistino una personalità diversa a seconda del personaggio.
Le loro facce di gomma piuma, dalle fattezze reali (anche se un po’ stralunate) che rimandano alla fisiognomica del popolo alpino o comunque nordeuropeo, lasciano a bocca aperta fin dal primo momento del loro apparire in scena, come pure l’interpretazione mimica corporea degli attori che le indossano passando dalla delusione alla confusione alla felicità con tutte le sfumature che stanno nel mezzo e con tutti gli atteggiamenti che un personaggio può avere.
Per spiegare questo fenomeno, mi è venuto in mente un interessante esperimento che condusse un secolo fa, agli albori del cinema, un giovane cineasta russo, Lev Vladimirovic Kulešov, interessato agli effetti espressivi del montaggio.
Nel 1918 Kulešov, con l'intenzione di dimostrare le sue idee riguardo l'importanza del montaggio trasse, da un vecchio film dell’epoca zarista, un primo piano (abbastanza naturale, senza espressioni) dell'attore principale. Kulešov replicò l’immagine in tre esemplari ed affiancò a ciascuno di essi un altro fotogramma. Poi chiese agli spettatori cosa ne pensassero. Nel primo caso, gli aveva affiancato l’immagine di una scodella piena di zuppa posata su un tavolo: gli spettatori, affermano che negli occhi del personaggio si evidenziava la fame. Nel secondo caso affiancò al grosso piano del viso il piano di un cadavere disteso: gli spettatori affermarono che negli occhi dell'attore si scorgeva una grande tristezza. Nel terzo caso, affiancò al piano del viso quello di una donna distesa sul sofà: gli spettatori affermarono che nello sguardo dell'attore si denotava l’eccitazione. Peraltro, tutti gli spettatori erano d'accordo nel riconoscere il talento incontestabile dell'attore. Con questa esperienza, Kulešov dimostrò che un piano isolato non ha nessun senso, ma lo prende invece da ciò che lo segue o lo precede. Lo spettatore, infatti, per sua natura, stabilisce sempre un legame logico tra due inquadrature/immagini che si succedono e che non hanno necessariamente un legame diretto. Il risultato, quindi, è che è possibile, tramite il montaggio, rovesciare il senso di un ‘immagine e guidare lo spettatore nello stabilire i legami. Il cineasta può mirare al raggiungimento di determinsti effetti mediante il montaggio, influenzando così la riflessione dello spettatore: questo viene oggi definito come ‘effetto Kulešov’.
Lo stesso effetto, trasposto a livello teatrale e di costruzione dell’immagine di un singolo personaggio, si è potuto ravvisare ieri sera.
E’ chiaro “Hotel Paradiso” non è un film ma un’opera teatrale. La sua particolarità, però, è che si basa su delle tecniche corporee vicine al mino e alla pantomima. Cioè, lo spettacolo è senza l’uso della parola e tutto ciò che lo spettatore capisce (e gli avvenimenti sono molto eloquenti!) è grazie al linguaggio del corpo.
Anche in questa singolare pièce le scene si susseguono l’una dopo l’altra, rapide. Ma quello su cui voglio porre l’attenzione è il “montaggio” teatrale che, in questo tipo di spettacolo, è più evidente che altrove.
Non si tratta di una semplice messinscena. Si tratta della costruzione dei vari personaggi e di come loro trasmettono ciò che provano, allo spettatore.
Come ho già detto, gli attori indossano sul volto delle maschere e queste hanno un’immagine fissa. Quindi, cos’è che fa capire cosa prova e cosa sta facendo il personaggio? Si tratta del solo linguaggio corporeo, senza il volto (esclusi quei pochi casi in cui il personaggio di turno, sulla maschera, inforcava gli occhiali – il cuoco-macellaio – oppure spostava i capelli dietro l’orecchio – una bella ospite dell’hotel).
I gesti che gli attori fanno col corpo sono movimenti talmente minimi che sono difficili da notare, ma che sembrano far cambiare l’espressione facciale alla maschera (in realtà statica e monospressiva) del personaggio. Quindi, l’accostamento del micro-movimento corporeo alla maschera fissa, fa sembrare che sia cambiata l’espressione di quel volto.
Non si tratta nel cinema dell’accostamento di due immagini differenti (effetto Kulešov), ma dell’accostamento di due parti della stessa persona, delle quali una ha subito una modificazione (in questo caso il corpo – sotto – il viso – che si è mosso, ha cambiato posizione o andatura).
Tutto ciò fa riflettere, a livello generale, su cosa sia la recitazione. Praticamente un “montaggio” sull’attore (della sua stessa immagine corporea).
Certamente si è sempre detto che a teatro l’attore deve avere presenza scenica per potersi far vedere anche da chi è in fondo alla platea o in alto sul loggione. E che l’espressione del volto (poiché occhi, naso e bocca sono parti del corpo abbastanza piccole e difficili da essere viste da lontano) forse è poco fondamentale (anche se alcuni attori si mettono la matita nera nel contorno occhi per renderli più evidenti anche da lontano).
Questo spettacolo, però, dimostra, involontariamente, che il lavoro di un attore teatrale (a differenza del cinema dove, invece, conta molto più l’espressione facciale) si svolge soprattutto con il corpo.
Paura, desiderio, gioia, rabbia, essere indaffarati o assonnati, essere inseguiti o essere alla ricerca di qualcuno/qualcosa, sono tutte cose che possono essere fatte capire allo spettatore, attraverso l’uso e la postura del corpo. Il volto, senza muoverlo, parrà automaticamente adattato alla situazione. Si tratta quindi di una metamorfosi sul personaggio.
Gli stessi attori si sono prodotti in un lavoro metamorfico. Infatti loro erano 4, ma i personaggi interpretati erano più di una dozzina. “Hotel Paradiso” è un luogo popolato di personaggi ingenui, semplici, rustici e teneri, ognuno con le sue manie, di cui gli altri non si stupiscono, ma che conoscono e accettano.
“Hotel Paradiso” della Familie Floez, nel complesso, si inserisce in quel genere di spettacoli popolari, ma studiati drammaturgicamente e dotati di regole interne al proprio genere, simile al nouveau cirque, alla commedia dell’arte, assurgendo, però, ad un’autonomia propria dotata di meno acrobazie (rispetto all’uno) e più tenerezza e contemporaneità (rispetto all’altro).
Il tipo di comicità da loro proposto è ambientato nella società di tipo medio e per alcuni versi il loro è uno humor nero, tipico dei paese nordici. Basti pensare al cuoco-macellaio che, a sangue freddo, dopo ogni omicidio, di cui nessuno si scandalizza più di tanto, inforca degli occhialini e entra nella sua cucina-laboratorio per macellare il malcapitato di turno, in una esclation di crudità dal maiale iniziale, al suo cane ucciso dall’intransigente direttrice, al povero facchino vittima innocente delle uscite ed entrate dei personaggi dalla porta girevole… Ma alla fine, come nel più tipico dei lazzi comici, rinuncia al proprio ruolo lavorativo e se ne va via col suo amato teddy bear quando, in quell’albergo di matti, anche l’intransigente direttrice e il romantico direttore della reception, presi da una lotta all’ultimo sangue, all’interno della sua cucina, si daranno la morte.
Tra le altre scene esilaranti c’è quella in cui un ladro si rifugia in hotel arrotolandosi nel tappeto d’ingresso per non essere scovato e gli ispettori che lo inseguono, entrando nella reception lo scavalcano a più riprese per passare. Oppure le scene della cameriera cleptomane alla quale, continuamente, vengono chiesti indietro degli oggetti, che ella nasconde su di sé come nella più clownesca delle situazioni.
Quelli proposti dalla Familie Floez sono personaggi che non si può non amare. Con i loro vizi e il loro caratterino, fanno simpatia e tenerezza, in una storia che è dotata anche di una grande poesia drammatica.
Uno spettacolo che, per la sua semplicità, può aver richiamato alla memoria un entusiasmo quasi infantile per quei lazzi che, nella loro semplicità e freschezza, richiedono, invece, una grande preparazione.
Un plauso va fatto anche per l’uso degli effetti sonori (di Dirk Schroeder), dalle musiche agli oggetti di scena, come l’aspirapolvere, che hanno arricchito e completato magistralmente uno spettacolo esilarante.
Questi sono gli ingredienti "Hotel Paradiso", uno spettacolo che, prodotto nel 2006, ha divertito tutto il centro-nord europeo (e ora anche l'Italia) a discapito delle differenze linguistiche e/o culturali di ogni Paese.