La storia è lineare (solo apparentemente) e si svolge in un collegio femminile nell'Appenzell, Svizzera, negli anni Cinquanta. La protagonista ricostruisce un'atmosfera di idillio e cattività, ripercorrendo le proprie infanzia ed adolescenza. Siamo nei luoghi delle passeggiate di Robert Walser, quando stava in manicomio: se ne vagheggia la morte, quieta, silenziosa, nella neve. La protagonista, senza nome, cerca la solitudine e, al tempo stesso, invidia il mondo fuori dall'istituto: un luogo sospeso, di esasperata sensibilità. E di immobilità. Di rapporti tortuosi coi propri simili. L'inafferrabilità dei sentimenti. L'enigma dei sentimenti. La difficoltà, parimenti, di guardare dentro sé stessi e di convivere con quei luoghi oscuri e tumultuosi.
Punto di svolta è l'arrivo di Frédérique ad anno scolastico già iniziato. Frédérique, di madrelingua francese, è bella, perfetta, “diversa” da tutte, elegante, ha fascino, intelligenza, talento. La protagonista, inevitabilmente, resta folgorata, non può non essere attratta dalla nuova arrivata, dalla sua quieta terribilità. Non resiste a volerla conquistare. Frédérique è altezzosa, superba, inarrivabile. La forzata reclusione nel collegio altera i rapporti e gli equilibri, “quelle che hanno vissuto nei collegi sanno vivere di niente. La vita l'abbiamo vista passare dalle finestre, dai libri, dall'alternarsi delle stagioni, dalle passeggiate, sempre di riflesso”. Ma alla protagonista quel niente non basta più. Prima il collegio era la casa, anzi il luogo in cui ci si sente a casa, poi diventa il luogo dell'estraneità.
E il terribile esplode, scoprendo il confine tra perfezione e follia, quel confine che è affascinante e devastante esplorare: sconcerto, attrazione, timore. L'amore è schiavitù. Un amore esclusivo, mai dichiarato, mai inteso come carnale, un amore ascetico che mira alla perfezione assoluta, rectius alla perfezione che Frédérique incarna. L'io narrante giunge persino ad imitare la scrittura dell'amica.
Il rapporto tra le due chiaramente non è paritetico: all'interesse della protagonista, Frédérique risponde col silenzio. La protagonista sembra aver perduto il contatto con la realtà; ricorda a intermittenza, ha sbalzi di umore. Più che la sua vita, la donna ripercorre la vita dell'amica. L'allontanamento dal collegio alla morte del padre, improvvisa. Dai turbamenti innocenti dell'adolescenza si scivola oltre il confine della malattia mentale. A Ginevra le due si ritrovano, passeggiano, si frequentano. Ma Frédérique è visibilmente malata. Accade l'irrimediabile: Frédérique incendia la casa con la madre dentro e viene chiusa in manicomio. E, dal manicomio, arriva la lettera con scritto “Adieu”.
Ricordare quegli anni appare alla narratrice come l'unica possibilità di vivere, sopravvivere. Riandare ai “beati anni del castigo”, gli anni più belli. La protagonista torna davanti al collegio, ora diventato una clinica per ciechi. Le persone che incontra insistono che lì un collegio non è mai esistito. I dubbi ingigantiscono nella mente del lettore e dello spettatore, il gioco di specchi è infinito. Inafferrabile. Come i sentimenti.
La scrittura di Fleur Jaeggy è esatta e precisa, apparentemente algida, invero un meccanismo perfetto, sontuoso; impressionante la padronanza di linguaggio, la ricerca della rarefazione, dell'essenzialità con echi poetici. Crea un senso continuo di attesa, un'attesa che non sarà appagata.
Luca Ronconi perfettamente ricrea in palcoscenico l'atmosfera del romanzo, pubblicato da Adelphi. La scena è inondata di luce bianca, bianche le alte pareti quasi prive di uscite, bianco il telo steso a terra di traverso, bianche le luci abbacinanti, bianco il basso recinto che reclude la protagonista in uno spazio mentale invalicabile. Due sedie i soli elementi scenici e, oltre le parole, un breve frammento beethoveniano. Un bianco ospedale, un vuoto manicomiale. Che si riflette sull'anima. Oppure dell'anima è il riflesso.
Il monologo vive della forza interpretativa di Elena Ghiaurov, anche se sul palco ci sono due figure mute, Federica Rosellini (Frédérique) e Maria La Falce (madre di Frédérique).
Qualche posto vuoto in sala, pubblico poco coinvolto, abbastanza tiepido nel finale.