Che ne I Capuleti e i Montecchi il libretto di Romani non sia all’altezza della musica composta da Bellini è realtà evidente per chiunque si accinga alla visione di quest’opera: l’azione non sempre è convincente, i personaggi risultano sbiaditi e soprattutto mancano quel pathos e quella tensione che rendono grande un capolavoro teatrale. Proprio partendo da questo presupposto Arnaud Bernard, come evidenzia egli stesso nelle note di regia, ha pensato di ambientare la vicenda in uno spazio museale (“Ed un giorno, improvvisamente, ho trovato la definizione giusta per qualificare l’oggetto: un’opera da museo. La partitura dei Capuleti mi è apparsa come un’opera d’arte protetta da una teca, un’opera che possiamo contemplare ma non riusciamo a toccare”). All’apertura di sipario, durante la sinfonia, il bello spazio scenico ideato da Alessandro Camera appare brulicante di operai che trasportano quadri di varie dimensioni, ora imballati ora no ma ugualmente pronti ad essere issati e inchiodati alle pareti della pinacoteca, e di addetti alle pulizie che spazzano e lucidano l’assito del pavimento. E proprio da un taglio di una delle grandi tele appoggiare al muro di fondo improvvisamente paiono sbucare, con indosso abiti di foggia cinquecentesca, i protagonisti della vicenda che, durante la recita, alternano le loro gesta alle azioni quotidiane dei dipendenti del museo, i quali approfittano dei vari intermezzi musicali per uscire e sbrigare le loro faccende. Proprio questa alternanza però, che finisce per risultare un poco artificiosa, soprattutto se unita a una certa convenzionalità dei gesti risulta essere il punto debole di un allestimento che non mette completamente a frutto le buone potenzialità iniziali.
Bella e convincente la Giulietta di Mihaela Marcu: il timbro è leggero, ma la linea di canto si presenta uniforme e sicura, buono il legato, squillante l’acuto, curato l’aspetto della recitazione. Scenicamente molto credibile anche il Romeo di Daniela Pini, la quale, seppur dotata di uno strumento dal colore un po’ chiaro, mostra di possedere un’emissione solida soprattutto nei centri che le consente di fornire un’interpretazione intensa ed incisiva. Timbro forse non gradevolissimo, ma tecnica sicura e fraseggio curato per il Tebaldo di Shalva Mukeria, cui si accostano il Lorenzo dal timbro caldo e avvolgente di Dario Russo e l’impulsivo Capellio dall’emissione un po’ dura di Paolo Battaglia.
Direzione dai ritmi serrati e dai volumi talvolta un po’ troppo intensi per Fabrizio Maria Carminati, il quale sottolinea bene l’afflato lirico che permea la partitura, ma in alcuni frangenti fatica a mantenere l’equilibrio tra buca e palcoscenico. Appena sufficiente la prova del Coro dell’Arena di Verona che non si mostra sempre sicuro negli attacchi ed evidenzia qualche problema di amalgama.
Molto buono il successo di pubblico che ha visto tributare a fine spettacolo vere e proprie ovazioni per le due protagoniste.