Correva l'anno 1974, l'ultima volta che l'opera I Capuleti e i Montecchi di Bellini guadagnava le tavole del Teatro Verdi di Trieste. Fra l'altro, con la Giulietta d'una giovanissima, stellare Katia Ricciarelli. Ci son voluti quasi cinquant'anni perché vi ritornasse, in questi ventosi giorni di fine febbraio. Un'assenza clamorosa, per quest'emblematica apoteosi belcantistica; però, tutto sommato, meno eclatante dell'enorme distanza che separava quel 1974 dalla precedente apparizione triestina del 1853.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
La riproposta di uno spettacolo nato dieci anni fa
Lo spettacolo che ci viene proposto non è nuovo: frutto di una coproduzione italo-greca imperniata sulla regia di Arnaud Bernard, con scenografie di Alessandro Camera e ricchi costumi in stile di Carla Ricotti, ha visto la luce a fine 2013 al Filarmonico di Verona - dove è riapparso nel 2017 – per essere quindi presentato un paio d'anni dopo alla Fenice di Venezia.
Lasciandoci sempre poco persuasi della concezione drammaturgica del maestro francese, volta a collocare il lavoro in una pinacoteca in riallestimento, dove tecnici e inservienti vanno e vengono di continuo, e dove i personaggi dei grandi quadri prendono vita allorché lo spazio si fa deserto.
Concezione di per sé magari stimolante ma applicata maluccio, generando una soverchia staticità; mentre il via vai degli operai in elmetto o delle donne delle pulizie alla fine risulta un inciampo per la musica, oltre a distogliere la nostra attenzione. Nondimeno la chiusa finale, con i personaggi improvvisamente raggelati come in una tela di Rembrandt, circondati da un'enorme cornice, risulta innegabilmente di bell'effetto.
Un tessuto compositivo che privilegia le voci
L'evento triestino resta comunque interessante, dato che ci permette di scoprire - alle prese con tessiture ardue ed insidiose - due voci fresche ed indubbiamente interessanti: quella della ventiduenne soprano Caterina Sala e quella del giovane mezzosoprano Laura Verrecchia.
La prima sfoggia per la sua Giulietta una linea di canto senza sbavature, perfettamente equilibrata nell'intera gamma; tutta ben condotta sul fiato, con un timbro vellutato e luminoso, suoni morbidi e legato di bella purezza. Di qui, un «Eccomi in lieta vesta...Oh! quante volte» quanto mai tenero e rifinitissimo.
La seconda – altra voce intrigante, calda e corposa, ben costruita e ben amministrata, vincitrice fra l'altro dei concorsi Giordani e Ziino – palesa in scena un carattere ormai saldo e ben formato: non si perde mai d'animo nelle pioggia di colorature del suo Romeo, e non arretra neppure nelle agilità iperboliche sguainando la sua “tremenda, ultrice spada” .
Pure la voce di Marco Ciaponi s'addice bene al ruolo tenorile di Tebaldo. Dosata virilità nel tratteggiarne il carattere combattivo ed impetuoso, i suoni squillanti e lucidi, accento imperioso, linea di canto ben rifinita sono i suoi punti di forza. Emanuele Cordaro infonde buona incisività al suo Lorenzo; granitico e poco fraseggiato il Cappellio di Paolo Battaglia.
Una direzione all'insegna dell'equilibrio
Sul podio presiede Enrico Calesso, figura in crescente affermazione professionale. Per questa partitura così particolare, in bilico fra influssi rossiniani e le nuove istanze romantiche – ravvisabili specie nei frequenti interventi concertanti - trova una giusta chiave di mezzo, concertando all'insegna di un olimpico equilibrio. Lo vediamo portarla avanti con chiarezza d'idee, eccellente musicalità, dettagli strumentali accurati, accompagnamenti di signorile morbidezza. E ne controlla gli infuocati empiti canori, senza però mai sacrificare la tenera sensualità del canto stesso.
L'Orchestra del Verdi brilla di colori,e lavora bene; un po' meno lo sbrigativo Coro diretto da Paolo Longo.
Pubblico soddisfatto ma teatro non del tutto pieno, peccato. Colpa forse della gelida bora che soffiava sul Golfo di Trieste.