Assente sulle scene veneziane da più di vent'anni, I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini vi ha fatto ritorno come terzo titolo della stagione 2014-2015 della Fenice; edizione non del tutto nuova, perché nata nell'ambito di una collaborazione con la Fondazione Arena di Verona, dove è già andata in scena nel novembre 2013, e con l’Opera Nazionale Ellenica di Atene. Si tratta di un’opera veneziana per eccellenza perché proprio qui, in questa stessa sala, vide la luce nel marzo del 1830: troppo moderno, troppo rivoluzionario per quei tempi; per questo, a partire dalle rappresentazioni fiorentine del 1831, si preferì eseguire il più ortodosso finale di Vaccaj, una scelta rimasta in auge per un secolo per passiva tradizione sino al recente reinserimento nel repertorio corrente.
E’ così che ci siamo potuti godere il bellissimo confronto tra le due interpreti d'eccezione convocate nella sala veneziana, Jessica Pratt e Sonia Ganassi. Il timbro della prima è soave e lucente, il procedere luminoso ed elegante, e sotteso da sapiente coloratura e da una perfetta musicalità: in poche parole, una Giulietta eccellente, tenera e poeticissima: il suo “Oh quante volte, oh quanto” è un vero miracolo di equilibri. La seconda tratteggia un Romeo sempre pertinente, con bella capacità di variare timbri e colori, con legati sempre eleganti, nessuna menda nelle agilità, e sincera immedesimazione nel non facile ruolo ‘en travesti’: va da sé che con queste premesse “Se Romeo t’uccise un figlio” e la irruente cabaletta che segue, scorrono a dovere. Quanto al duetto del primo atto, e al loro confronto finale, come già detto, sono autentiche faville che hanno deliziato il pubblico veneziano. Il tenore Shalva Mukeria si butta nell’ingrata parte di Tebaldo con le armi che ha, cioè bella e ampia vocalità, omogenea nella gamma, sostenuta da spavalda irruenza; ma tutto finisce qui, perché di approfondimento non si parla e il suo personaggio appare piuttosto enfatico, generico nelle intenzioni e alquanto approssimativo. I due bassi Rubén Amoretti nel ruolo di Capellio e Luca Dall’Amico in quello di Lorenzo, medico di casa Capuleti (Romani qui segue le fonti italiane, e non Shakespeare), hanno assolto bene il loro compito.
La direzione di Omer Meir Wellber è apparsa accuratissima e sempre calzante, confermando ancora una volta la perfetta intesa con le compagini veneziane; una direzione saggiamente articolata nei tempi, liricamente espositiva, morbida ed elastica nel sostenere i cantanti, pronta a dipanare tutta la leggerezza e la composta classicità delle melodie belliniane senza mai farne dimenticare il respiro romantico.
La quieta e abulica regia di Arnaud Bernard e la scenografia di Alessandro Camera esibivano una cervellotica alternanza tra un finto retropalco, dove maestranze teatrali sistemavano l’attrezzeria, e vere e proprie scene teatrali, ampi spazi con antiche tappezzerie saturate da incombenti pitture ad olio. Piacevole il disegno dei costumi di Carla Ricotti; le luci si dovevano a Fabio Barettin.