In scena per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa nella storia recente delle rappresentazioni classiche. La commedia I cavalieri è un lavoro scomodo e nettamente di parte, prezioso testimone di fatti di capitale importanza nella storia ateniese. In una città stremata dal quinto anno consecutivo di guerra contro Sparta, l’inopinato successo riportato dal campione dei guerrafondai Cleone spinge un Aristofane appena venticinquenne a scendere in campo in prima persona, dichiarandosi a rischio della vita (di contro all’uso di servirsi di prestanome) autore e regista di un’opera ad elevatissimo tasso polemico.
La sferzante requisitoria condotta contro il detestato e potente nemico (alias Paflagone) sfrutta i mezzi di una trasparente allegoria unita ad una sapida inventiva per giocare sul paradosso che soltanto un personaggio più ripugnante di quello al potere potrà scalzare quest’ultimo: una condizione di profondo svilimento della vita pubblica, la decadenza di una grande civiltà che si lascia governare da una classe dirigente corrotta e ignorante trovano qui contraltare nella sfavillante inventiva satirica aristofanesca, un frenetico tourbillon di espedienti drammaturgici che il regista Giampiero Solari, spingendosi ad evocare la Repubblica di Weimar, assume a specchio bifronte della pessima politica di ogni tempo.
Gigio Alberti e Antonio Catania
I Cavalieri al tramonto di una grande civiltà
Le avvolgenti musiche di Roy Paci -in triplice veste di compositore, musicista e corifeo-scandiscono i tempi dell’agire scenico, introducendo con lo struggente tango del prologo il coro dei cavalieri (corpo d’élite di ricchi possidenti ostili alla guerra), acconciati alla maniera delle maschere grottesche di George Grosz, insieme ai cittadini ateniesi ridotti alla condizione di bestie. Due servitori (sublime la caratterizzazione di Giovanni Esposito/Demostene) dai nomi significativi spiegano come il loro padrone Demo (Antonio Catania) si sia lasciato del tutto soggiogare dal terzo acquisto della casa, lo schiavo Paflagone, «un sudicio pellaio» assurto al ruolo di primo ministro grazie all’arte del raggiro. La gustosa parodia degli altisonanti oracoli tradizionali prefigura l’uomo del destino in un lurido salsicciaio, che puntualmente si materializza.
Al solo apparire, la presenza scenica di Francesco Pannofino, orribilmente sudicio e con un drappeggio di cotiche e trippe atteggiate a mo’ di stola sulle spalle, muove ad una risata scrosciante la cavea del Teatro Greco, mentre il caratteristico timbro di voce fa il resto. «Feccia dell’umanità», «figlio di gentaccia», con «voce da maiale», nel “mondo alla rovescia” de I cavalieri, il salsicciaio sembra possedere tutte le caratteristiche del perfetto demagogo, pronto a sopraffare un Paflagone (Gigio Alberti) quasi sbiadito e rassegnato dinanzi al debordante dilagare dell’avversario.
Francesco Pannofino
La notte della democrazia senza pace
La volgarità imperante denunciata da Aristofane si rispecchia in una messinscena all’insegna dell’accumulo e del kitsch, cui corrisponde la prodigiosa inventiva linguistico-lessicale messa in campo dall’autore. A questa tiene dietro l’ottima resa di Olimpia Imperio, che reinventa in italiano finezze lessicali pressoché intraducibili, alleggerendo il testo dalla presenza pervasiva del turpiloquio, un elemento purtroppo ovvio e dunque irrilevante nel sentire degli spettatori contemporanei.
Le frequenti esortazioni del corifeo a «fare la fiesta» trasformano per breve la scena del teatro in un night club paragonabile alle feste in terrazza de La grande bellezza, lasciando intendere - come nel modello- il tragico esistenziale sotteso ad una falsa allegria. Il trionfo finale del salsicciaio su trono semovente -un ibrido tra Alessandro Magno e Bonaparte- garantito dalla compiacente connivenza di Demo, impedisce, nella versione di Solari, il reazionario ritorno al buon tempo antico e dunque l’ottenimento di quella pace tanto agognata da Aristofane: un’utopia così lontana da preferirle un accorato appello in difesa dell’autonomia di giudizio degli spettatori, specchio, a sua volta, della somma libertà di espressione da sempre accordata al teatro.