Lirica
I DUE FOSCARI

Il leone malato

Il leone malato

A legare le due opere verdiane che la Scala propone a inizio stagione, intervallate da Rigoletto, è il comune destino di un lungo oblìo: 160 anni per Giovanna D'Arco e 121 per I due Foscari, quest'ultima peraltro andata in scena a Milano in due periodi distinti e assai lontani nel tempo (quattro edizioni tra il 1845 e il 1858, altre quattro tra il 1978 e il 2009, in mezzo nulla). Al primo apparire (Roma, Teatro Argentina, 1844) I due Foscari suscitò molte perplessità per una certa uniformità di tinte, il carattere piuttosto lugubre dell'insieme (definizione dello stesso Verdi in una lettera a Piave), l'azione limitata. Invero, se l'opera manca della varietà riscontrabile nelle partiture successive, tuttavia si rintracciano spunti di grande interesse: basti il fatto che sia opera di singoli e non di masse (dopo Nabucco e I lombardi alla prima crociata) e che per questo il compositore ricorre all'espediente per lui nuovo dei motivi ricorrenti, ossia identificare un personaggio con un'idea musicale che si riprende senza modificarla (ecco la differenza rispetto a Wagner) più volte nel corso della vicenda. Così Jacopo Foscari è associato a un motivo dolente del clarinetto, Lucrezia Contarini a un arabesco di archi svelti, Francesco Foscari ai violoncelli solenni e intimi.

La nuova produzione scaligera è curata di Alvis Hermanis, da noi apprezzato sia nella prosa (vedi la recensione di Le signorine di Wilko) sia nella lirica (vedi le recensioni di Il trovatore a Salisburgo e Die Soldaten alla Scala). Il regista immagina (la drammaturgia è di Oliver Lexa) che il plot sia l'ultima giornata di un uomo anziano in procinto di morire e pertanto con uno stato di coscienza alterato tale per cui la realtà lascia il posto al mondo dei sogni e dell'aldilà. Così si spiegherebbero il quadro iniziale durante l'ouverture con il Doge inginocchiato di fronte al Leone di San Marco (stessa immagine del sipario) e il suo barcollare in preda a un malore, come anche le vedute di Venezia (video di Ineta Sipunova) sbiadite e annacquate come acquerelli dai colori assai diluiti, i teli che inquadrano le scene (dello stesso regista, ottimamente illuminate da Gleb Filshtinsky) seppiati oppure impressi coi celebri velluti damascati di Mariano Fortuny, declinati però in monocromi anch'essi seppiati. I costumi di Kristine Jurjane sono fastosamente quattrocenteschi ma rivisti secondo lo sguardo dell'epoca contemporanea a Verdi, dunque filtrati dalla temperie romantica e, dal punto di vista cromatico, si richiamano a quelli di Pier Luigi Pizzi (allestimenti del 1978 e del 1988) e a quelli di Maurizio Balò (allestimenti del 2003 e del 2009): tonalità di rosso per i dignitari veneziani, prevalenza di oro per il Doge, colori chiari e terragni per Lucrezia e Jacopo. Peraltro le scene riportano in più occasioni quadri noti e contestualizzati a luogo ed epoca, eppure si ha l'impressione di una mera citazione senza influssi energizzanti nella messa in scena. Se la regia parte da una idea interessante e calzante per un'opera che ha alla base un notevole immobilismo sia dal punto di vista della narrazione che dei caratteri dei protagonisti, tuttavia il risultato resta parimenti fermo e poco accattivante e l'unica novità rilevante sembra essere quella dei dieci ballerini che replicano i Dieci del Consiglio ottenendo peraltro risultati ironici o grotteschi (coreografie di Alla Sigalova).

Bene calibrata ed equilibrata la direzione di Michele Mariotti che ben coglie la tinta lugubre della partitura, esaltando le componenti del primo Verdi ma senza eccedere in sonorità, anzi privilegiando l'intimità e la solennità delle scene, solistiche o in piccoli ensemble nel primo caso e corali nel secondo.

Plàcido Domingo non ci ha convinto completamente nelle recenti prove baritonali; qui incarna un Francesco Foscari di grande intensità emotiva e dalla voce ancora sufficientemente piena, esaltata dalla presenza scenica e dalle indubbie qualità drammaturgiche, nonostante la carenza di colore scuro renda meno evidente la pietas del ruolo che necessita invece di accenti marcatamente baritonali per conferire sia autorevolezza e solennità al doge, sia anzianità all'uomo. Francesco Meli è Jacopo Foscari, generoso e squillante come sempre, in grado di reggere senza incrinature la tessitura alta di questa parte; seppure il ruolo non gli consenta particolari approfondimenti psicologici, il tenore ha accenti di grande suggestione nella barcarola Brezza del suol natìo (in cui finge di remare e immagini di Venezia scorrono sul fondo, situazione che non giova all'intensità del momento) e nella grande aria di apertura del secondo atto (sullo sfondo del Ponte dei Sospiri). Ci ha convinto Anna Pirozzi: la sua Lucrezia Contarini ha temperamento e riesce a bene equilibrare la tenerezza e la combattività che il ruolo richiede, seppure le agilità non siano sgranate alla perfezione. Andrea Concetti è Jacopo Loredano e, nonostante la correttezza della prestazione vocale e la giusta presenza scenica giocata su beffardi sorrisi, resta sullo sfondo. Corretti nei ruoli di contorno Edoardo Milletti (Barbarigo), Chiara Isotton (Pisana), Azer Rza-Zade (Fante) e Till Von Orlowsky (Servo), questi ultimi due provenienti dall'Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro. Il coro è stato ben preparato da Bruno Casoni, i ballerini appartengono alla Scuola di ballo dell'Accademia del Teatro diretta da Frédéric Olivieri.

Visto il 09-03-2016
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)