Lirica
I DUE FOSCARI

SIBERIA VENEZIANA

SIBERIA VENEZIANA

Seconda delle tre opere dirette da Muti per il bicentenario verdiano (dopo Simon Boccanegra e prima di Nabucco), l'allestimento de I due Foscari è caratterizzato dal freddo: ghiaccio e neve sono incombenti anche negli interni per un'idea del gelo del potere che Werner Herzog racconta nel programma di sala come un “congelamento sociale”. Un'idea interessante che però resta ferma al dato scenotecnico. La scena monumentale di Maurizio Balò è dominata da pareti grigie di pietra striata; la venezianità è affidata a qualche leone di San Marco (di pietra, un'ombra, in mosaico con gli occhi tondi spalancati e un'espressione stupita e ironica), alla proiezione di finestre ad archi gotici trilobati e a una gondola impennata contro il muro. I costumi, sempre di Maurizio Balò, foderati e bordati di pelliccia, sono di foggia rinascimentale ma nelle stoffe luccicanti rimandano al Novecento. Giuste le luci di Vincenzo Raponi.
Herzog resta al di fuori della vicenda e la sua lettura non va oltre la superficie della laguna ghiacciata: i cantanti entrano ed escono, i gesti sono di maniera, i movimenti routinari. Nel finale l'attenzione del popolo è verso giocolieri e funamboli e non verso le questioni della politica: i coristi danno le spalle al pubblico e ai protagonisti.

Riccardo Muti torna a I due Foscari dopo l'edizione milanese di dieci anni fa (prima agli Arcimboldi il 13 maggio 2013) e, pur non tralasciando una certa ruvidezza del primo Verdi che però resta marginale, aggiunge un dettaglio affascinante che ammanta tutta la partitura: un senso di autunnale malinconia che smussa le asperità e romanticizza il suono. Le pagine assumono grande bellezza, anche per merito dei solisti (in particolare oboe e violoncello) e di un'orchestra in stato di grazia. Se resta qualche dubbio filologico, si è apprezzato il tentativo di rileggere l'opera (che ebbe la sua prima assoluta al teatro Argentina di Roma) alla luce della successiva produzione e il suono è cesellato in ogni dettaglio.

Luca Salsi ha la morbidezza del baritono tipicamente verdiano e nel suo Doge prevale la stanchezza per la difficoltà connessa la ruolo politico che gli impedisce di salvare il figlio pur sapendolo innocente. Francesco Meli, dopo qualche iniziale incertezza, affronta con generosità il ruolo di Jacopo e la voce piena e sicura conquista il pubblico. Tatiana Serjan è una Lucrezia impetuosa, quasi erinnica, che convince più nei momenti di invettiva piuttosto che in quelli intimi e di ripiego lirico: l'aspra tinta drammatica della voce pare non cogliere le corde della dolcezza ma solo quelle della rabbia e del furore. Luca Dall'Amico è il “bad boy” dell'opera (così nelle note di regia): giovane, aitante, spregiudicato e spietato. Con loro la Pisana di Asude Karayavuz, il Barbarigo di Antonello Ceron e il coro ben preparato da Roberto Gabbiani. A completare il cast il Fante di Saverio Fiore e il Servo di Donato Di Gioia.

Teatro gremito, pubblico entusiasta: applausi e ovazioni a scena aperta, un trionfo nel finale.

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