“Noi siamo fuori dai limiti della realtà”, dice il mago Cortone nel secondo atto: ed è questa la chiave di lettura con cui approcciarsi al dramma pirandelliano.
Una villa incantata abitata da creature magiche ospita una compagnia di attori itineranti ed offre agli spettatori la trasposizione scenica di un delirio psicotico: realtà, drammaturgia, sogno, fantasie schizofreniche si fondono per dar vita al complesso amalgama de “I Giganti della Montagna”.
La trama e la complessità del testo devono esser accantonati per comprendere la difficile impresa di costruire questo spettacolo: “se ci lasciamo prendere… è la pazzia”, grida esasperato un personaggio dal palco. Ed è questo l’errore in cui non cadere per poter apprezzare la rappresentazione. Un’ affascinante attuazione del principio “teatro nel teatro” è incastonata all’interno di una densa introspezione psicologica dell’identità umana.
Pirandello lascia in questa insolita tragedia la sua firma a caratteri cubitali: abolita la quinta parete, amplifica i fantasmi interiori degli uomini e concede, per il tempo di una notte scenica, all’assurdo di divenir “possibile”. Ed è così che la compagnia di attori può diventare la culla di un disagio psichico nascosto o non compreso, la morte ed il suicidio vengono sperimentati in una dimensione irreale e tutto ciò che nella vita quotidiana è tenuto a distanza e temuto, su questo palco diviene udibile, visibile, accettabile.
D’altronde “ con la luna tutto comincia a farsi di sogno” ed ogni notte anche noi possiamo varcare il confine della coscienza, “sciogliere i calzari e deporre il bordone” per abbandonarci alla liceità del nostro inconscio. Nell’intimo della nostra mente sappiamo che esiste la nostra privata “Villa Scalogna”: un piccolo mondo a parte, in cui il sogno può prendere vita liberamente e senza il controllo della razionalità.
Un plauso alla regia e al delicato equilibrio scenico con il quale tutta la compagnia è riuscita a tener insieme un testo frammentario e molto impegnativo.