I lombardi alla prima crociata tornano sul palcoscenico del Teatro La Fenice, ed è la prima volta dal lontanissimo 1843. Cioè dopo quasi 180 anni, lunghissima e curiosa assenza, dal momento che il maggiore teatro veneziano può vantare - secondo solo alla Scala - molte prime assolute di opere di Giuseppe Verdi.
Cinque, per la precisione: Ernani, Attila, Rigoletto, Traviata, Simone Boccanegra. E quindi si può considerare un autentico tempio verdiano, in cui le sue opere hanno trovato frequente ospitalità. Il che, tuttavia, non vale per questo particolare titolo.
Prima “I lombardi”, poi “Gerusalemme”
A ben vedere, I lombardi alla prima crociata avrebbe fatto capolino in questa sala nel 1854 e 1963, sotto le parvenze di Gerusalemme: vale a dire l'adattamento italiano di Jerusalem, sua posteriore versione in salsa parigina. Anche da queste due eventi, comunque, ci dividono distanze stellari. Altro motivo d'interesse, l'opera viene presentata a Venezia nell'edizione critica Ricordi/Chicago Press curata da David Kimbell; ed un orecchio attento avverte non poche differenze rispetto al passato.
Aiutato, in questo, dalla circostanza che la partitura sia posata sul leggio di Sebastiano Rolli, concertatore consapevole, attento, rigoroso. Ma nel contempo fantasioso, leggero, flessibile. Un direttore ormai di consolidata esperienza del podio, ed attento esegeta di queste pagine verdiane. Le segue con attenzione e passione l'Orchestra fenicea, in cui al Preludio Atto III risplende l'assolo del primo violino Roberto Baraldi.
Un musicista alla ricerca dell'originalità
Il giovane Verdi nel quarto suo lavoro teatrale si diverte a scombinare le carte, rispetto alle consuetudini d'epoca: l'onnipresente e vero protagonista, Pagano, ha voce di basso; i due amorosi – il primo tenore Oronte, e il primo soprano Giselda – occupano una minima parte delle quindici scene scandenti il libretto del Solera. Ed il coro bissa ed amplia il ruolo egemone avuto nel Nabucco, suddividendosi però stavolta fra due ruoli contrapposti.
Pagano, dunque. Figura che trapassa dal predatorio allo ieratico, psicologicamente tormentata, che a Michele Pertusi s'addice benissimo (e ce l'ha nel suo carnet da tempo), mettendo a frutto quel suo timbro morbido, compatto e variegato, nonché quella rotonda linea di canto e quel saldo presidio della scena che gli sono propri.
Antonio Poli offre un Oronte d'eccellenza, nel quale la calda e screziata luminosità dell'emissione è supportata da rifinita fraseggiatura – La mia letizia infondere è veramente lodevole – mentre la Giselda di Roberta Mantegna rimane un po' a mezz'aria: sentimentalmente è partecipe, musicalmente persuade solo quando viaggia sul registro di mezzo – finemente ricamata e poetica le riesce l'Ave Maria – però se la voce sale verso l'alto, molte note sono spinte da sotto e sfociano in acuti non sempre limpidi.
L'Arvino di Antonio Corianò è tagliato un po' con l'accetta, eccitato e molto univoco; bene la Viclinda di Marianna Mappa e la Sofia di Barbara Massaro; preciso il Pirro di Mattia Denti. Christian Collia è il Priore, Adolfo Corrado, Acciano. Dire che il Coro della Fenice, sotto la nuova guida di Alfonso Caiani, è stato di grande bravura, sarebbe ancor poco.
Una regia a conti fatti deludente
L'aspetto visivo di quest'opera di per sé alquanto frammentaria - non facile da portare in scena ignara com'è delle regole aristoteliche dell'unità di azione, tempo e luogo - poggia nelle mani di Valentino Villa. La soluzione proposta è l'attualizzarla ai giorni nostri – idea trita e ritrita - collocandola in spazi privi di precisa caratterizzazione.
La scenografia di Massimo Cecchetto infatti propone un'enorme scatolone che s'apre e chiude secondo bisogno, facendo intravedere scorci d'una città come tante, o un paesaggio orientale qualsiasi; e minima oggettistica in scena. Scelte volute, peraltro. Elena Ciccorella disegna dei costumi che a definirli banali si è generosi: jeans e giubbetti per la folla milanese, candidi per i guerrieri lombardi, neri per i musulmani, sono tutti senza sesto.
Drammaturgicamente, nell'insieme molte cose non quadrano. Si viaggia spesso sopra le righe, la comprensione dello spettatore talora è messa a dura prova e vacilla. Non si capisce la presenza costante di guerriere – milanesi o arabe, secondo il momento – armate di mitra. La gestualità insignificante, le scene di massa impacciate.
Passi che la grotta dell'eremita sia sostituita da una jeep arrugginita. Passi la banalità del fantasma di Viclinda con i fiori in mano, evocato dalla figlia. Ma alla fine, allorché la presa delle mura di Gerusalemme da parte dei crociati viene resa attraverso un attacco mortale ad un minimarket orientale - chiosco che appare in scena per poi sparire subito - ahinoi ci cadono le braccia.