Lirica
I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA

Firenze, teatro Comunale, "I …

Firenze, teatro Comunale, "I …
Firenze, teatro Comunale, "I Lombardi alla prima Crociata" di Giuseppe Verdi VERDI IN IRAQ. E TUTTI CONTRO LA FINANZIARIA CHE VUOLE LA MORTE DELLA CULTURA. Sono convinto che oggi si debba rivivere l’epopea tragica dei Lombardi non più attraverso il filtro dell’ideologia risorgimentale, ma assumendola come un’esortazione che Verdi rivolge agli uomini, di oggi come di allora, per la “libertà”, non solamente del Santo Sepolcro, non solamente di Gerusalemme, ma di tutto il mondo, per i musulmani, per i cristiani, per gli ebrei, insomma per tutti. Ogni opera parla di qualcosa alludendo a qualcos’altro ed ogni opera “viva” viene intesa da pubblici diversi, in epoche diverse, in luoghi diversi, in modo diverso, ma con la stessa forza e lo stesso risultato. Così, in quel lontano 1843 il pubblico voleva Milano liberata dagli Austriaci e si identificava nei Crociati che nei secoli bui combattevano per liberare Gerusalemme dagli infedeli. Oggi il pubblico, aiutato da una messinscena stilizzata, metaforica, allusiva, deve avvertire il problema di liberare ogni popolo, a Gerusalemme e ovunque, ed identificarsi in Giselda e nella sua appassionata perorazione “No, Dio nol vuole!”. Insomma una messinscena che spieghi l’errore e l’orrore della guerra, questo si deve oggi comunicare, tentando, come Verdi e Temistocle Solera, di cercare il vero dentro il proprio tempo, non solo dentro la storia, ma anche dentro l’animo dell’uomo. A questo scopo il giovane regista scozzese Paul Curran ha inteso richiamare l’attenzione sulla tragedia continua di tutte le guerre, esprimendo la sua più che legittima posizione (da me totalmente condivisa) contro le guerre di oggi. Però la sua regia, fortemente stilizzata e rispettosa delle intenzioni del compositore, non mi ha del tutto convinto: i cantanti sono poco più che immobili e certe attualizzazioni la rendono semplicistica e banale, ben oltre le pur meritevoli intenzioni. Come nel quarto atto, quando durante la battaglia finale scorrono in rapidissima successione immagini che rimandano ai fatti di Abu Ghraib o di Guantanamo. In televisione tutto ci appare uguale, è paradossale, ma stragi e guerre scivolano via senza più suscitare sensazioni, senza provocare le reazioni che invece dovrebbero scatenare. E vedere le stesse immagini a teatro, invece che stimolare una reazione, fa lo stesso effetto di appiattimento delle sensazioni. Le iconografie delle scene (come i costumi) sono di Kevin Knight, tradizionali nel suggerire la civiltà occidentale, gli ambienti orientali e gli spazi del deserto, contemporanee nell’ambientazione e ben si integrano con la regia e la direzione orchestrale. Il sipario è una carta geografica del medio oriente. Il primo atto è ambientato in una Milano dominata da una densa nuvolaglia grigia, grattacieli e gru sullo sfondo, il popolo sotto gli ombrelli, sorvegliato da severe poliziotte e separato da transenne di metallo dalla processione. I fidi di Pagano sono truppe d’assalto con tute blu e un atteggiamento da violenza gratuita. Poi scivolano al centro del palco tre parallelepipedi grigi, con davanti affreschi a tema sacro e porte di legno. Si odono rumori e uomini con le pile vanno alla ricerca degli estranei. Un fascio di luce dalla porta sullo sfondo indica la stanza di Arvino a Pagano, entrato con istinto omicida, anche lui vestito con tuta blu e anfibi. Il pavimento è grigio chiaro con venature e lunghe striature scure, come se la terra si stesse screpolando, come se la violenza avesse lasciato lunghe e filamentose bave di lumaca a imperituro monito, tracce evidenti e incancellabili che al momento del parricidio diventano rosso sangue. Al posto della lama è una pistola l’arma per uccidere e minacciare il suicidio, mentre una comparsa passa con un panno bianco macchiato di rosso (la Veronica), ma qui al posto della Sacra effige c’è la croce che poi sarà simbolo dell’esercito crociato. Sulla folla urlante si chiude il sipario come se fosse l’obiettivo di una macchina fotografica, l’occhio dell’oggi che guarda sui disastri che ogni giorno arrivano nelle case tramite telecamere ed immagini di fotoreporter. Il secondo atto è ambientato in un palazzo di Antiochia, suggerito da un muro sullo sfondo costruito con blocchi irregolari di colore giallo ocra, ancora sotto un cielo grigio piombo, sul pavimento è distesa una grande mappa su cui vengono mossi modellini di carri armati a segnalare la posizione delle truppe lombarde. Si sente un fortissimo rumore di pioggia sul tetto del teatro e, poiché a volte la realtà supera la finzione scenica, un po’ di pioggia si insinua all’interno e cade sul palcoscenico e fa effetto vedere la pioggia vera filtrare da quello spesso e minaccioso strato di nuvole dipinte. Poi nel quadro successivo il deserto: il cielo è azzurro, dune e palme in lontananza, l’eremita esce da una botola in jeans, camicia bianca e borsa di cuoio a tracolla, più un giovane d’oggi che un penitente. Il palco vuoto è subito riempito dall’esercito che avanza, uomini e donne in divisa mimetica seguono il vessillo, la bandiera bianca con la croce rosso sangue, stesso simbolo sul braccio destro di ognuno, mitragliatori in mano. La successiva scena dell’harem ha su tre lati il muro giallo ocra con i mattoni squadrati, accenni di piastrelle blu-verdi-gialle a contorno delle porte in primo piano. Spicca il giallo dei muri contro l’azzurro del cielo, un colore smaltato come solo i cieli di oriente sanno avere. Dilaga la violenza, fucili spianati e truppe con elmetti su tutti i muri si affacciano a tenere sotto controllo donne inermi. Il terzo atto si apre con l’arrivo dei pellegrini che invero sembrano più turisti, sia nelle movenze che nell’abbigliamento. Il palcoscenico è vuoto, sul fondale dune di sabbia, due palme e i colori del tramonto. Tutto si gioca con un movimento di quinte che si aprono e si chiudono e nel momento della conversione di Oronte una delle “striature” del pavimento si illumina di azzurro a richiamare il fiume Giordano. Poi solo movimenti di quinte, fino alla toccante scena finale: in una luce livida sono tutti in piedi con una croce bianca in mano. Al momento del trionfo, al momento di raggiungere l’agognata Gerusalemme, meta finale della crociata, il risultato della guerra (come di tutte le guerre) è solo un campo di croci, nonostante si odano musiche di vittoria. Se la regia ha diviso, la parte musicale ha messo invece tutti d’accordo, riservando sorprese e soddisfazioni e ricevendo insistenti applausi a scena aperta. Roberto Abbado ha riletto il giovane Verdi mantenendone solo in parte la carica risorgimentale e drammatica e al tempo stesso valorizzandone l’elegia romantica: in perfetta sintonia con Curran, Abbado ha sottolineato gli accenti intimi della partitura, prediligendoli a quelli più “bandistici”, così tipici nel primo Verdi. Ammirevole ed a lungo applaudito l’assolo di violino di Yehezkel Yerushalmi. Perfetto il tema, fornito sottovoce, sopra fagotti e ottoni del popolare “O Signore, dal tetto natìo”. Non ha manifestato incertezze il coro, preparato da Piero Monti, non solo assiduo compagno del canto solistico ma qui brilla anche da sé (chiesto e concesso il bis di “O Signore, dal tetto natìo”). Bene hanno fatto anche i cantanti solisti, in una compagnia in cui hanno dato un contributo significativo anche i ruoli di contorno. Erwin Schrott è stato un Pagano ottimo nel difficile ruolo, impostato su due registri di voce e, in pratica due personaggi, sebbene appare più credibile quando ha la fierezza e l’arroganza, violenta e prevaricatrice, del bandito. Ma Schrott ha una splendida presenza scenica ed una voce brunita bellissima, tra le migliori oggi in circolazione e risulta credibile sia quando il personaggio del malvagio ha le movenze del baritono sia quando da pio e benefico si orienta più verso il basso nobile, un personaggio vibrante e cangiante difficile e complesso (in contrapposizione a Pirro, un autentico basso che canta più grave di Pagano, qui il bravo Marco Spotti). Giselda è stata una intensa Dimitra Theodossiou: le sfugge qualche nota ma nel complesso il risultato è buono, se anche la voce non è bellissima. La soprano greca si destreggia con onore nella scomoda vocalità fra soprano di coloritura e lirico spinto; dei due registri evidentemente quello che le si adatta di più è quello colorato, intimamente appassionato, per cui raggiunge il massimo della prova nei momenti lirici invece che in quelli belcantistici, meritando maggiori applausi nelle note centrali e gravi che nello squillo e ad iniziare dalla superba scena finale del secondo atto, dove allinea tutti i suoni filati. Ottima nella scena squisitamente lirica della visione, ottima nel terzetto con Oronte e Pagano, introdotto dal lungo, originalissimo e splendido concertino per violino ed orchestra. Ottimi l’Oronte di Ramòn Vargas e l’Alvino di Massimiliano Pisapia. Vargas parte subito splendidamente con “La mia letizia infondere” e prosegue sino alla fine senza sbavature: egli è un grande interprete del personaggio per la fresca bellezza del timbro, la nitida articolazione del fraseggio e la naturale comunicativa dell’accento. All’inizio il sipario si è alzato su una folla in silenzio: il palcoscenico strapieno di coristi, cantanti, tecnici, tutti in silenzio, tutti immobili, in alto la scritta illuminata “AMMUTOLITI PER I TAGLI DELLA FINANZIARIA ALLA CULTURA”, un uragano di applausi di partecipazione del folto pubblico. Una protesta condivisa: il decurtamento del Governo al Fondo Unico per lo Spettacolo è deleterio, perché in Italia la cultura ha in ruolo insostituibile nell’identità storica e sociale, è elemento primario ed insostituibile di progresso, naturale “metro” della nostra civiltà. Anche se forse a qualcuno (a troppi) fa più comodo un popolo credulone e in balia della televisione, di un certo tipo di televisione e di comunicazione. Il bisogno irresistibile di “azione”, che rappresenta l’essenza più autentica della vocazione risorgimentale di Verdi, è inaccettabile che oggi si traduca solo con l’azione di pigiare i tasti del telecomando in presenza di un palinsesto a dir poco scadente e vergognoso. E il tempo dei “Lombardi” (che, come altri capolavori verdiani dell’epoca, si contrappone alla degenerazione morale) sarebbe allora irrimediabilmente concluso. Visto a Firenze, teatro Comunale, il 2 ottobre 2005 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Maggio Musicale Fiorentino di Firenze (FI)