Se a Trieste va in scena "Il corsaro", Venezia risponde a ruota con "I masnadieri": sulle sponde dell'Adriatico, nel Nordest d'Italia il bicentenario verdiano entra nel vivo delle celebrazioni con due titoli minori ma che costituiscono pur sempre un motivo d’attrazione, soprattutto perché assai poco frequenti nelle nostre sale per l’avarizia dei direttori artistici.
Questa produzione veneziana de "I masnadieri" non è una nuovissima come quella di "Otello", che ha aperto a dicembre insieme a "Tristano e Isotta" la stagione d'opera 2012/2013 del teatro La Fenice, dal momento che ha visto la luce al San Carlo di Napoli nel marzo dell'anno scorso; allora sul podio presidiava Nicola Luisotti. Poco importa: nella città lagunare era comunque molto attesa, dato che era addirittura dal 1850 – dunque da un secolo e mezzo abbondante - che vi mancava. Un’assenza che ha dell’incredibile, considerata la sin eccessiva l’attenzione rivolta ad altri titoli verdiani: come ad esempio “La traviata” di Robert Carsen, spettacolo presente alla Fenice ininterrottamente da alcune stagioni.
La componente visiva di questi “Masnadieri” toccava a Gabriele Lavia con esiti che complessivamente ci sono parsi positivi, anche perchè l'artista romano non è nuovo a questo soggetto iper romantico. Memorabile rimane infatti la produzione del teatro Eliseo del 1982, che vedeva il testo di Schiller affrontato nella duplice veste di attore/regista, a fianco di due partner d'eccezione quali Monica Guerritore e Umberto Orsini. Guarda caso, se le scene erano allora di Giovanni Agostinucci, i costumi erano di Andrea Viotti, riconvocato vent’anni dopo per questo allestimento operistico. Si lavora con chi dà fiducia…d'altronde pure Alessandro Camera, autore della scenografia di questi “Masnadieri”, è da qualche tempo un suo assiduo collaboratore (l'ultima impresa dei due, "Artaserse" di Händel a Martina Franca l'estate scorsa).
Che poi sia la prima volta che Lavia affronta questo titolo 'minore' nella versione operistica di Verdi e del Maffei, come qualcuno ha detto non è vero, dato che nella mia memoria sopravvive una lontana e poco nota edizione pisana del 1986. Ma evidentemente la grande tragedia schilleriana, con il suo alone di romanticismo maledetto, è un testo che lo attrae molto, e che gli risulta congeniale. Così gli è riuscita l’impresa di collegare con accortezza un divenire scenico spezzettato (le prime quattro scene, ad esempio, si succedono un po’ come siparietti dedicati a singoli personaggi: uno dentro, l'altro fuori), impostando un ritmo narrativo incalzante anche mediante veloci cambi a vista, pressoché inavvertibili per lo spettatore. Si può condividere o meno una certa attualizzazione ai giorni nostri, collocante la storia in una città degradata, dalle oscure ed opprimenti atmosfere, dove si muove la torma dei 'giovani traviati poi masnadieri' (così li definisce il libretto), emarginati urbani discriminati dalla società e da essa sospinti al delitto. Come si può magari non condividere che Lavia tratteggi un Francesco odioso, deforme, gobbo, sciancato oltre che perverso d'animo: malvagio dentro, e ripugnante fuori. Sia come sia, Lavia sembra voler esaltare quella intensità con la quale Verdi seppe dipingere il lato più tenebroso di una umanità senza più riferimenti morali ed etici: quei valori fondamentali che, non a caso, sono rimpianti da Carlo, e la cui trasgressione pare pesare più della mancanza dei suoi affetti familiari. Qualche inciampo c'è, a dire il vero, come quando nel duetto tra Amalia e Francesco ti piazza in scena delle curiose figure femminili mascherate (le invitate al banchetto lui le dipinge così), oppure allorché ti presenta Moser come una via di mezzo tra un parroco di campagna ed un vescovo di città, benché sia un pastore protestante; ma sono in fondo quisquilie, il resto è solido teatro. Quanto al lavoro di Alessandro Camera, è presto detto: intorno muri di palazzi abbandonati ricoperti moderni e inquietanti graffiti, a terra un tappeto di detriti, una selva di svettanti fari, una vecchia poltrona (quasi) sempre in scena, una grande croce metallica per suggerire il sepolcreto dei Moor. Fin che ospita la banda dei masnadieri, bene; ma è ambientazione incongrua negli altri casi, e alla fine pure monotona. Seguendo questo impianto visivo, i costumi di Andrea Viotti erano qualcosa a mezzo tra abiti ottocenteschi e moderno, e piacevano per il loro curioso mixage.
Sulla scena stavano voci molto interessanti, tutte pertinenti al lessico verdiano. Giacomo Prestia, per esempio, che faceva già parte del cast napoletano, è stato un Massimiliano esemplare per autorevolezza vocale, che nello stupendo racconto «Un ignoto, tre lune or saranno» consegue solidi effetti narrativi. Artur Ruciński, anch’esso presente nel cast napoletano, s’è mostrato all’altezza di un personaggio complesso quale Francesco, assecondando con grandi risultati recitativi la resa di un personaggio più turpe ed infame – così lo vuole Lavia – che ‘maudit’, con una linea di canto generosa e ricca di colore, e segnata dal legato elegante. Quanto alla coppia d’amanti divisi, sulla scena erano il tenore basco Andeka Gorrotxategui e il soprano Maria Agresta. Il primo si è mostrato un Carlo ben compiuto nel carattere, molto generoso nell’emissione e dal fraseggio intelligente: coglie infatti l’intonazione giusta per la scena di apertura, dove versi poco consoni alla situazione si accompagnano ad una musica impetuosa, e la mantiene anche per quei due momenti - «O mio castel paterno» e «Di ladroni attorniato» che esigono dall’interprete non solo eleganza vocale, ma anche una virilità venata di melanconia e austerità, senza mai cadere nell’enfasi. Peccato solo che un suono un tantino nasaleggiante sminuisca una prestazione altrimenti ragguardevole. La Agresta è stata una Amalia di tutto rispetto, che in «Lo sguardo avea degli angeli» trova una linea di canto soave e leggiadro, lo stesso che ritroviamo nelle volute fantastiche di «Tu del mio Carlo al seno»; raffreddandosi però subito dopo nella pirotecnica cabaletta «Carlo vive?», meno entusiasmante. In compenso l’abbiamo trovata molto brava, e a dire il vero più del suo partner, in quello stupendo duetto – un vero e proprio ‘pas à deux’ verdiano – che è «Qual mare, qual terra». Per finire dei cantanti, tutto il ruolo di Arminio è stato ben condotto da Cristiano Olivieri; generosa prestazione anche di Cristian Saitta quale Moser, discreta quella di Antonio Feltracco come Rolla.
Accurata nel disegno interpretativo – drammatico sempre, stentoreo mai - e indovinata nelle atmosfere la direzione di Daniele Rustioni, che ha agito in piena intesa con l’orchestra veneziana: direzione che parte bene già dallo stupendo Preludio sinfonico, un vero e proprio movimento di concerto (un plauso al bravo primo violoncello della Fenice); e poi prosegue felicemente, sostenendo con grande attenzione la linea del canto ed evidenziando valori e colori di una partitura in qualche punto magari bruttina (secondo l’attuale metro di giudizio), ma pur sempre pervasa di irruente musicalità; e drammaturgicamente, mai e poi mai sbagliata e men che mai noiosa.
All’altezza del compito assegnato il Coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti. Grande trionfo di pubblico, con generosi applausi per tutti. La serata è stata radiotrasmessa in diretta da Radio Tre.
Lirica
I MASNADIERI
I MASNADIERI NEL DEGRADO
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)