Lirica
I MASNADIERI

LA RICERCA (INUTILE) DELLA FELICITA'

LA RICERCA (INUTILE) DELLA FELICITA'

Preso da mille impegni all'apparenza inderogabili in una vita che sembra sfuggirmi di mano, sono stato costretto a delegare gran parte del Festival Verdi del bicentenario a un collaboratore ma per i Masnadieri sono voluto salire personalmente per almeno tre motivi che mi hanno riempito di soddisfazione: il teatro Regio, luogo accogliente in cui ci si sente sempre a casa e si respira un'aria di operosa cultura diffusa, forse elitaria ma non certo snobistica; l'opera, raramente in scena nonostante l'attualità dei temi trattati; la regia di Leo Muscato, uno dei pochi per i quali vale la pena di fare centinaia di chilometri con la certezza di non restare delusi.
Muscato è uomo e regista intelligente e sensibile, colto e intuitivo, che ci ha regalato in questi anni spettacoli fatti di poca attrezzeria e tante idee, che hanno lasciato una traccia indelebile: penso (ma non solo) al progetto “Ri-scritture” della Leart produzioni, quando quella società aveva un cuore e un'anima, oltre le ali per volare seppure incatramate come nel Volo tratto dal Gabbiano cechoviano.

Come sempre, Muscato parte da un apparato scenico perfetto ma fatto di piccole cose, “povere” nel senso certamente non dispregiativo del termine ma crepuscolare, oggetti visti con profondo affetto e in grande attinenza con il racconto. In questo caso l'ambiente quasi fisso di Federica Parolini è costituito da una specie di ring, un piano un po' inclinato di rozze tavole, assi di legno inframezzate da fessure (dove a tratti si insinuano le splendide luci di Alessandro Verazzi): basta sollevare alcune parti per rendere il senso del cimitero con le lastre tombali. Per gli interni si utilizzano un letto e qualche sedia e, per creare un doppio ambiente, un sipario di lino chiaro rattoppato ma impreziosito da un bordo di merletto. Il bosco è reso con tronchi scortecciati simili a zampe di elefante che nel quarto atto restano sospesi a mezz'aria rendendo l'atmosfera claustrofobica e surreale e scivolando nell'incubo.
I costumi di Silvia Aymonino servono a connotare storicamente i fatti e in più indugiano su dettagli che esteriorizzano l'interiorità dei personaggi e li caratterizzano maggiormente (il bastone e il viso devastato per Francesco, ad esempio). Una storicizzazione fedele che non manca di volare alto per la cultura teatrale del regista e la sua capacità di far recitare i cantanti come attori di prosa. E questi masnadieri, più che farabutti, appaiono come anime smarrite, giovani confusi attratti dai piaceri materiali e dominati da una rabbia potente e impotente, accomunati dalla mancata accettazione (totalmente incline all'età) dei compromessi e delle ingiustizie della vita, ad un tempo vittime e carnefici delle loro stesse esistenze irrisolte, armati di quattro coltelli e falci trovati quasi per caso ma forgiati da un senso dell'onore incorruttibile.

Leo Muscato propone uno spettacolo di grande significato sia in senso storico che contemporaneo. Si colgono con la messa in scena i topoi verdiani: un debole riferimento alla guerra, vista principalmente come interiore, presente negli animi devastati dei protagonisti; l'evocazione schilleriana di un mondo in disfacimento e della critica feroce contro l'età della ragione in nome della potenza del sentimento e dell'emozione; la confusione dei giovani che hanno perso i punti di riferimento senza agganciarsi a valori credibili e dunque in polemica contro ogni potere e istituzione costituita; il sentimento rivoluzionario esaltato dalle istanze romantiche; il femminicidio perpetrato con quasi noncuranza e ineluttabilità; i contrasti insanabili nei rapporti tra padri e figli e tra fratelli. C'è tutto nello spettacolo di Leo Muscato e tutto è chiaro e comprensibile, come il plot che scorre con una narrazione lineare e un senso teatrale fortissimo. Si vede che Muscato viene dalla prosa e conosce nel dettaglio le regole dello spettacolo dal vivo: i suoi masnadieri sono quanto mai attualissimi e, al tempo stesso, quanto mai rispettosi del libretto e della partitura. Tutti alla ricerca della felicità. Tutti incapaci di trovarla nelle piccole cose della vita quotidiana.

Francesco Ivan Ciampa è preparato e appassionato, rispettoso della partitura, la sua direzione è regolare ma poco sottolinea le tinte fosche e le differenze cromatiche: se i ritmi sono ben scanditi, i contrasti non sono invece ben sottolineati, non rendendo al meglio la ruvida scabrosità della scrittura né cogliendo appieno gli agganci con le opere successive. Efficacissima l'ouverture, con il bravo violoncello solista a rendere la tinta dell'opera sopra i musicisti della Filarmonica Arturo Toscanini.

Roberto Aronica conferisce intensità a Carlo Moor, privilegiando il senso di spaesamento e l'attesa di qualcosa che lo riporti  dove tutto pare abbia una senso; la voce potente è sorvegliata con intelligenza e riesce a dare il meglio nel terzo atto compensando qualche imprecisione precedente: ma l'accento è giusto da subito, dall'iniziale “O mio castel paterno”.
Artur Rucinski ammanta di nero il suo Francesco, dandy nell'abbigliamento e nel contegno (complice il trucco che devasta il viso e il bastone che rimanda a una claudicatio, indizi fisici di una turpitudine morale e comportamentale: “tremate, o miseri, voi mi vedete nel mio terribile, verace aspetto”), ragazzo profondamente solo e afflitto da un senso di inferiorità che lo trasforma in un despota; la voce rende benissimo il ruolo con nuances scurissime e una dizione che scolpisce il verso come ferro e fuoco, complice una regia che, nell'aria “La sua lampada vitale”, gli fa spengere ad una ad una le candele del candelabro immediatamente connotando la ferocia del personaggio, un ruolo complesso e contraddittorio che sarebbe facile trasformare in generico cattivo ma che qui acquista, nelle scelte registiche e nell'interpretazione del baritono, un'aura maledetta da predestinato perfetta per i malvagi romantici dell'area tedesca ma che impressiona anche gli animi latini. Riuscitissima la scena in cui Francesco viene minacciato da Amalia, che gli punta contro una pistola in proscenio: lei, donna assediata e sola contro il cattivo potente è Aurelia Florian, notevole presenza scenica e voce corposa seppure poco salda in acuto e non nitida nelle colorature, espressiva anche in certi passaggi non perfettamente risolti.
Bravissimo, in un ruolo minore, Antonio Corianò (Arminio), la voce pulita e dolce da tenore verdiano, il fraseggio nitido. Meno efficaci il Massimiliano imponente di Mika Kares e il Moser intrigante di Giovanni Battista Parodi. Completano il cast Enrico Cossutta (Rolla) e il coro straordinario preparato in modo sempre impeccabile da Martino Faggiani (uomini in scena, donne dietro le quinte, impacciate dai tacchi sopra le assi durante gli applausi finali).

Il pubblico della prova generale che gremiva il teatro ha particolarmente apprezzato la messa in scena con ripetuti applausi a scena aperta e un trionfo per tutti nel finale per un'opera particolarmente attesa: dopo l'unità d'Italia a Parma si era data una sola volta nel dicembre 1974.

Visto il
al Regio di Parma (PR)