I Menecmi è una delle più celebri commedie di Plauto, che ha goduto di una enorme fortuna anche in pieno umanesimo arrivando a ispirare La commedia degli errori di Shakespeare. Un testo che deve la sua fortuna alle felici invenzioni di Plauto il quale, partendo da elementi tradizionali del teatro romano e di quello attico, riesce a creare un'opera di sintesi autonoma e rivolta a un pubblico popolare.
La trama, nella sua semplicità, rappresenta l'archetipo della commedia degli equivoci: i siracusani Menecmo e Sosicle sono due fratelli gemelli. Ancora nfanti,durante un viaggio col padre a Taranto, Menecmo viene rapito da un mercante di Epidamno, dove viene condotto e dove cresce. Sosicle viene rinominato Menecmo in memoria del fratello rapito. Da adulto Menecmo/Sosicle si mette alla ricerca del fratello, fin quando giunge a Epidamno dove viene scambiato da tutti per il suo gemello. Moglie, amante, servo e suocero di Menecmo prendono i due gemelli per la stessa persona finché, grazie all'intuizione del servo Messenione, la verità viene ristabilita e i due fratelli tornano insieme a Siracusa.
Le situazioni comiche che scaturiscono dallo scambio di persona servono a Plauto anche a sovvertire i legami e le consuetudini socio-familiari della Roma a lui contemporanea. Così nelle sue commedia i giovani fanno i gradassi e non sono soggetti ai vecchi, le mogli rendono i mariti succubi, mentre i servi sono affrancati dai padroni. Questo sovvertimento della tradizione teatrale prosegue anche nel rapporto diretto che Plauto instaura tra i suoi personaggi e il pubblico i quali si rivolgono direttamente agli astanti durante la commedia (anche se nei Menecmi questo tratto è meno presente che altrove).
L'allestimento del teatro Arcobaleno è curato dalla compagnia Castalia che, si legge nel comunicato stampa, si dedica al teatro classico antico dal 1992, senza trascurare l'impegno nella formazione del pubblico giovanile allestendo rappresentazioni per le scuole di Roma e Lazio, distinguendosi per il numero elevato di spettacoli e di repliche. La Compagnia, negli anni, ha richiamato l'attenzione di istituzioni quali il dipartimento di Arti e Scienze dello spettacolo dell'università "La Sapienza" di Roma, con il quale ha recentemente collaborato, ricevendo, per questo allestimento dei Menecmi, il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Comune di Roma tramite l'Assessorato alle politiche Culturali.
Insomma ottime credenziali che lasciano sperare a uno spettacolo all'altezza del testo da rappresentare.
Purtroppo il risultato è davvero modesto.
L'adattamento del testo a cura Vincenzo Zingaro, che firma anche la regia, banalizza la commedia cancellando molti dei riferimenti alla cultura romana presenti nell'originale: i riferimenti al foro, ai nomi delle monete, all’abbigliamento (riducendo sensibilmente il gioco incentrano, nel testo plautino, sul mantello che Menecmo sottrae alla moglie, vantandosene come fosse una vittoria bellica...), il Tribunale da cui torna Menecmo (e le relative cariche politiche d'epoca romana), le cure mediche e le divinità romane, persino le imprecazioni sono riscritte, quasi nulla rimane dell'originale nell'adattamento di Zingaro, un azzeramento sconcertante soprattutto se si pensa che la compagnia si dedica al teatro antico romano...
L'opera di Plauto, caratterizzata dall'uso di un lessico medio (il sermo familiaris) viene reso da Zingaro tramite un uso approssimato dei dialetti italici: così Menecmo/Sciclione, provenendo da Siracusa, parla in siculo, la moglie dell'altro Menecmo parla in romanesco, il cuoco Cilindro in toscano. Un'idea sulla carta intelligente, che cerca di restituire le diverse provenienze lessicali contenute nel testo originale ma che vien banalizzata da una versione semplificata dei dialetti più vicina agli standard dell'avanspettacolo che a quelli del teatro dialettale (che in Italia ha una sostenuta tradizione).
Zingaro cerca una comicità facile calcando la mano sul turpiloquio, mai davvero volgare, ma comunque fuori luogo perchè in Plauto non si trovano vere e proprie parolacce ma doppi sensi, allusioni. Lo stesso vale per i personaggi che in Plauto sono delle vere e proprie maschere (facilmente identificabili dal pubblico di allora): Il vecchio (senex) avaro e in conflitto con il figlio (nei Menecmi è il suocero di Menecmo, che difende dapprima il genero, perchè entrambi maschi, poi la figlia ma solo quando apprende del furto del mantello e vuole proteggere il patrimonio di famiglia...); il servo (servus) schiavo (letteralmente) del suo padrone, astuto o sciocco, che cerca sempre di ingannare il proprio padrone (nei Menecmi Messanione rimane fedele a Menecmo/Sciclione anche se lo fa convinto sia l'unico viatico per riconquistare la libertà); la cortigiana (meretrix) donna maliziosa ma anche autonoma e artefice del proprio destino.
Le versioni rivedute e corrette da Zingaro non sono più le maschere di Plauto ma quelle della commedia dell'arte edulcorate e trasfigurate da un immaginario collettivo cinematografico (...il suocero di Menecmo sembra Alberto Sordi...) che trasfigurano i personaggi originali in una imbarazzante parodia di se stessi.
Evidentemente a Zingaro interessa più intrattenere il suo pubblico che farlo avvicinare a un universo complesso, storicamente e culturalmente diverso, come quello della commedia plautina. Infatti nella sua commedia si ride non già per il testo ma per quelle battute tanto facili quanto riconoscibili dal pubblico (numeroso) cui si adegua una recitazione approssimativa e tutta concentrata non già nella interpretazione del testo ma nella performance tout-court.
Nelle note di regia Zingaro per giustificare questo riscrittura disinvolta scomoda addirittura Artaud il quale sosteneva il superamento della tirannia del testo sullo spettacolo, in favore di un teatro integrale, che comprendesse e mettesse sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, suono e parola.
Tutto vero, ma Zingaro si dimentica che Artaud era in polemica col teatro verista di Appia e Craig non certo con la commedia di Plauto o col teatro romano. Zingaro continua: Le commedie greche e latine contengono un universo fatto di gesti, danza, musica e parola. Immergendoci, quindi, nel magico gioco della Commedia Antica, troviamo il germe di una teatralità pura, volta a trecentosessanta gradi, al coinvolgimento dello spettatore, come elemento attivo della rappresentazione. Di cosa Zingaro parli non si capisce visto che fondamentalmente non rimane nulla del teatro di Plauto se non i testi (...) non abbiamo nessuna fonte figurativa (...) né informazione su costumi degli attori (...). Non abbiamo inoltre (...) notizie non solo delle scene, dei costumi e delle maschere, ma anche degli stili di recitazione1.
Comunque sia la soluzione proposta da Zingaro è tradizionalissima: musiche moderne commentano i movimenti degli attori, i costumi sono un interessante ma astorico patchwork tra gusto contemporaneo e simil-medievaleggiante (certamente non romano...) la recitazione si rifà ai classici standard della commedia dialettale (Stefano Dionisi come modello di riferimento). Insomma di quel Teatro integrale pensato da Artaud nello spettacolo di Zingaro non c'è proprio traccia.
Anche l'idea di sottolineare il doppio quale argomento della commedia allestendo un palcoscenico dentro il palcoscenico pur costituendo un'intuizione interessante non viene purtroppo portata alle estreme conseguenze (quelle che avrebbe voluto Artaud...) ma rimane un compitino scolastico: la scena presenta due finte colonne e un timpano sui quali sono disegnate le maschere del teatro greco (non romano...) mentre due bauli, quelli classici color verde e borchiati di rame, tradiscono l'idea ottocentesca di Teatro cui lo spettacolo sembra rifarsi come standard e concezione registico-drammaturgica.
Lo spettacolo si apre con una citazione di S. Agostino che ha per Zingaro il significato di un seme, gettato in un solco che attraversa l’intera rappresentazione, una provocazione a considerare la vicenda in una prospettiva diversa.
Intenzione encomiabile che però nello spettacolo non ha seguito alcuno. Il tentativo nel finale di far riflettere spettatori e personaggi sul Teatro (quando i due Menecmi si accorgono di stare su un palcoscenico e si muovono specularmente ognuno su uno dei due palcoscenici quello scenografico e quello reale sul quale avviene la rappresentazione) arriva fuori tempo
massimo per riscattare uno spettacolo nel quale le arguzie del testo plautino sono sostituite dal più trito armamentario comico.
Insomma, questa versione dei Menecmi ha molto poco a che fare con Plauto e molto di più con un'idea passatista di teatro, che non giova al teatro classico né aiuta i giovani a formarsi come spettatori consapevoli.
Però, nonostante tutti i suoi difetti, bisogna dare atto alla compagnia della buona fede e della passione con cui porta avanti il proprio lavoro, e, per rispetto di un'arte che sta sempre di più scomparendo come quella teatrale, non possiamo non difendere questo modo di fare teatro anche se non convince e probabilmente si muove nella direzione sbagliata.
Con buona pace di Plauto (e di Artaud) che sono proprio un'altra cosa.
Roma, Teatro Arcobaleno dal 16 gennaio al 22 febbraio 2009
1) Nial W. Slater La dimensione della rappresentazione in Plauto Miles Gloriosus Aulularia Mondadori,
Milano 1999 pp. VI-VII
Visto il
al
Arcobaleno
di Roma
(RM)