Lirica
I PESCATORI DI PERLE

i pescatori fra gli avatar

i pescatori fra gli avatar

Georges Bizet ha ventisei anni quando compone “I pescatori di perle”, rappresentata per la prima volta a Parigi nel settembre 1863 fra aspre critiche tanto che, vivente Bizet, non venne mai più ripresa (dovranno passare oltre dieci anni per la sua affermazione folgorante con Carmen). Tuttavia i Pescatori rivelano già pienamente la personalità del compositore, il suo temperamento lirico-drammatico, la fantasia dell'evocare luoghi ed usanze lontani, al punto da meritare le lodi di Berlioz e Brahms. D'altra parte la seconda metà dell'Ottocento vede crescere l'interesse per l'esotico; i pittori orientalisti rappresentano principalmente i paesi arabi ma anche le culture dell'estremo oriente con diverse sfumature: dal sogno romantico al viaggio verista all'identificazione simbolista.

I pescatori di perle è ambientata sull'isola di Ceylon quando era parte dell'India. La scena di Giorgio Ricchelli presenta nel primo atto una spiaggia di dune grigiastre su uno sfondo dove talvolta luci e pennellate di luce simulano la distesa del mare senza colori. Un grigiore poco rischiarato dai costumi di Alessandra Torella che hanno una vaga ispirazione indiana. Alle luci di Vinicio Cheli il compito di rendere le atmosfere, principalmente notturne. Nel secondo atto una grande testa di divinità pare sprofondare nella sabbia ed è usata da Leïla e Nadir per cantare il duetto separati, uno sopra e l'altra sotto e viceversa. Nel terzo atto un muro di tempio fagocitato dalle radici di baniani lascia il posto a un enorme albero a fascio.

La regia di Fabio Sparvoli è poco incisiva nel tratteggiare i caratteri dei tre protagonisti ed i rapporti che li legano, limitandosi ad accompagnare il canto con la presenza sul palco di coro e solisti. Nel finale del primo atto Nadir resta addormentato per tutto il tempo del duetto e la sua dichiarazione d'amore si tinge di onirico, risultando meno efficace. Nel finale dell'opera non c'è il rogo e Zurga resta solo in scena a contemplare la propria solitudine mentre il coro si ode da fuori e il sipario si chiude alle sue spalle (una conclusione aperta che risale all'autografo ma che venne poi riscritta in modo peggiorativo con l'aggressione a Zurga da parte dei pescatori spinti da Nourabad).
Poco convincenti le coreografie di Maria Grazia Garofoli, basate su passi di danza classica, qualche posa indianeggiante (la dea Durga con più braccia), qualche movimento tribale (terzo atto), una coreografia di comprensione ostica considerando i costumi da folklore abruzzese e la pelle azzurra dei ballerini. Proprio questa mia ha suggerito il titolo della recensione, rimandando il colore della pelle ai protagonisti del celebre film che peraltro si rifà ad un concetto tipicamente indiano, quello dell'avatar come manifestazione terrena della divinità (o meglio la sua discesa sulla Terra), il colore di pelle delle rappresentazioni tradizionali di Shiva o Rama.

Frédéric Chaslin dirige in modo morbido e con attenzione ai momenti lirici che vengono curati maggiormente rispetto a quelli impetuosi, favorendo un suono languido e rilassato. Bene gli strumenti solisti nell'orchestra. Poco precisa la prestazione del coro, che ha un ruolo molto rilevante nell'economia dell'opera.

Nel cast si è ravvisata una certa imprecisione nel francese, contribuendo a togliere parte del fascino della partitura: molte delle nouances poste a chiaroscurare le linee musicali dipendono in gran parte dalla pronuncia. Antonino Siragusa è un preciso Nadir, il timbro è luminoso e morbido, il legato puro e omogeneo, la voce non ha difficoltà a salire in alto e a scattare in modo incisivo; le arie sono cantate con grande cura dei colori, in particolare quella del primo atto in cui esprime dolore, ricordo, amore con mezzevoci assai suggestive, riuscendo a rendere il languore connaturato con l'esotismo ambientale e le vibrazioni passionali del momento. Luca Grassi è uno Zurga contenuto, dalla voce sicura ma non prodiga di sentimenti, più attento alla robustezza dell'emissione che alle sfumature. Nino Machaidze è una Leïla dalla voce sonora e corposa, convincente nel canto largo ed appassionato dell'aria a Brahma più che nelle agilità. Con loro il Nourabad di Paolo Pecchioli, che ha sempre in mano una bacchetta magica con cui, tra l'altro, materializza fuochi nella sabbia.

Molti applausi da parte del pubblico, interessato a un'opera non spesso rappresentata in Italia.

Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)