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I PILASTRI DELLA SOCIETà

Attualità de "I pilastri della società"

Attualità de "I pilastri della società"

Chissà perché se si ricostruisce una pièce creando l’ambiente tal quale o perlomeno simile a quello descritto da un qualsiasi drammaturgo del passato si viene accusati di essere ‘antichi’ o ‘non adeguati ai tempi’ et similia? Forse che se si va ad ammirare una qualsiasi opera d’arte non moderna, la si trasforma? Che bisogno imprescindibile c’è della tanto sbandierata attualizzazione - comunque gradevole se fatta cum grano salis ahimè sempre meno utilizzato… - quando nei secoli l’umanità ripete dolorosamente se stessa con nefandezze e azioni buone (sempre meno, ma esistono) cambiando solamente fogge degli abiti, abitudini sociali e costumi?
Ben venga allora lo spettacolo I pilastri della società che vede come regista e attore il bravissimo Gabriele Lavia - coadiuvato da un’ottima compagnia - cui prima di tutto va il plauso per avere ricostruito, complice anche l’allargamento a grand’angolo dello spazio scenico, scenografie precise e puntuali che sono vere opere d’arte, una sequela di quadri accostati come fotogrammi di un’esposizione d’arte in cui si possono riconoscere vari input da Tiziano, a Silvestro Lega, a Giuseppe De Nittis e perché no a Munch e ogni spettatore può cogliere assonanze diverse secondo la propria sensibilità.
E se l’occhio è ampiamente gratificato, non lo è meno l’udito nel dipanarsi della pièce di Henrik Ibsen (Skien 1828 - Oslo 1906) - opera che nel 1877 non ha riscosso molto successo forse perché certa società della Norvegia aveva paura di riconoscersi troppo e che è stata poco frequentata dai registi italiani del secolo scorso - il quale stigmatizza la politica corrotta, l’ipocrisia codina e il perbenismo ottusamente moralista della società borghese dei suoi tempi.
Emerge un icastico ritratto del Console Bernick - lupo affamato, avido e carico “di tutte brame” ricoperto dalla pelle di un agnello ingenuo, dolce, generoso se non altruista, ma capace di giocare a rimpiattino con gli strumenti del progresso come la ferrovia e soprattutto con familiari e amici sacrificati sull’altare del proprio ego, ma che il destino gli riporterà di fronte per cui cercherà di eliminarli in tutti i modi - che pare l’immagine di tanti ‘uomini famosi’ e non c’è bisogno di allontanarsi dall’Italia per trovare esemplari di tale fatta…
Se il finale in Ibsen lascia un’ombra di speranza, nella versione di Lavia, pur restando integra la forma, si afferma ancora di più la protervia del protagonista che confessa sì le sue colpe (un punto in più rispetto ai nostri ‘campioni’ nazionali), ma riesce a farle passare in modo machiavellico come sacrifici necessari al bene comune: imbonitore dotato di una dialettica mellifluamente persuasiva allo scopo di non perdere la posizione di privilegio acquisita.
Il mondo cattolico l’avrebbe perdonato già in itinere e dopo tanto eloquio c’è da scommettere che anche quello protestante norvegese avrebbe perdonato il reo confesso.
E in questo quadro ‘bernickocentrico’, in cui alcuni personaggi maschili sono ancora più abbietti di lui e caricati di sfumature macchiettistiche, spiccano figure femminili di grande spessore benché conculcate nella libertà salvo quella Lona che, fatta luce sull’inganno del nostro Giano bifronte, provoca in modo forte le ‘madonnine infilzate’ di questa società alto borghese.
Saranno le rare, eppure presenti, donne di grande levatura a costituire insieme a verità e conseguente libertà i ‘pilastri’ della nuova società?

Visto il 25-03-2014