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I PILASTRI DELLA SOCIETà

I PILASTRI DELLA SOCIETA': obsoleto pure per Ibsen

I PILASTRI DELLA SOCIETA': obsoleto pure per Ibsen

Doveva essere uno spettacolo nato nel segno di una riflessione sul teatro come strumento etico-civile, attraverso la rilettura dei classici della drammaturgia, portando in scena il dramma dell’uomo di fronte all’ambizione e al successo sociale. Lontano da questo obiettivo e sfortunatamente anche dal senso che questo capolavoro di Ibsen racchiude in se, abbiamo assistito ad una messinscena di difficile decodificazione.

La scelta del testo sembrava potesse aprire uno spiraglio nuovo, dopo l’esperimento di Costa, sul grande drammaturgo norvegese, portatore di modernità nel linguaggio e nei temi trattati per il conformista e borghese ottocento. Una sensazione che arriva forte per il prima quarto d’ora di spettacolo, grazie alla maestosa scenografia curata con estremo gusto estetico (un pregio di Lavia) Peccato che dal sedicesimo minuto, l’aria inizia a rarefarsi di pesantezza recitativa. In scena prendono vita cloni che su indicazioni registiche (ne escludo altre motivazioni) si muovono e parlano tra di loro. Non attraverso le parole del testo. Non al pubblico.

Nella storia, prigioniero di un passato che lo esclude dalla vita del presente, il Console Bernick (Gabriele Lavia) mette in discussione la sua credibilità, il ruolo sociale e il successo personale per confessare le proprie colpe pubbliche e private. “Pilastro morale della società”, Bernick vive in realtà da oltre quindici anni una vita di inganni.
Ha infatti sedotto e abbandonato una giovane che per il dolore ne è morta, e ne ha lasciato ricadere la colpa sul fratello minore di sua moglie Betty, Johan Tonnesen, emigrato subito dopo in America con la sorellastra Lona. Nel piccolo ambiente borghese in cui vive, il Console è un uomo corretto, potente e rispettabile fino a quando il rientro improvviso di Johan e Lona, lo costringeranno a confessare gli errori commessi tanti anni prima. Spinto da Lona, forse l’unica donna che lo abbia amato, confessa i suoi errori e riscatta dal tormento e dal peccato la lunga parentesi in cui è vissuto.

Nella sua ansia di verità e di libertà, Bernick esalta il ruolo purificatore dell’onestà e della fedeltà del singolo contro una società codarda ed ipocrita, dominata dai pregiudizi e dalle disuguaglianze sociali e culturali. Il valore artistico e il carattere simbolico espresso nel titolo, rendono il dramma efficace ancora oggi, nonostante le differenze e le specificità politiche della nostra epoca.

Una storia che di suo è drammaturgicamente impeccabile e racchiude con estrema semplicità intenzioni e stati d’animo dei personaggi. Non se ne comprende allora la necessità di trasformare un testo ancora vivo, spacciandolo come trampolino di lancio per trattare temi attuali, in un puro rispolvero di memoria per tecniche recitative dei primi del novecento, con il superamento del macchiettistico che sicuramente sarebbe stato più consono.

Seppur riconoscendo al Maestro l’occhio raffinato estetico ed alcune idee registiche degne di nota, gli attribuisco la responsabilità di aver manipolato il talento di Ibsen con insana megalomania, portando in scena un registro recitativo comune monocorde, vuoti di memoria e movimenti impacciati, una svalutazione del testo per i concetti di libertà e verità, l’eclissamento del ruolo femminile che non è il tema portante dell’opera ma che comunque viene trattato con frasi magicamente comparse, una autocelebrazione finale poggiata sull’ormai stoppiaccioso politico di turno e sulla quale avrei fatto economia per dare una limatina alle parti assegnate al cast.

Nella speranza che sia una parentesi irripetibile, ricordo che il teatro è rappresentazione e non finzione. A poco valgono i fedeli seguaci se il pubblico, su quelle poltrone, trema solamente perchè scomodo starci seduto per tre ore di spettacolo

Visto il 20-11-2013
al Argentina di Roma (RM)