I puritani, ultimo capolavoro di Vincenzo Bellini, ottenne immediato successo alla creazione ma non la stessa fortuna di altre opere del compositore catanese ed è un titolo tuttora poco rappresentato per le innegabili difficoltà esecutive vocali che pone. Basata sulle lotte tra i seguaci di Cromwell (i puritani, per l'appunto) e gli Stuart, nonostante lo sfondo romanzesco e guerresco il tono dominante è dato dal colore elegiaco del dramma che ha il suo centro nella follia di Elvira e nella passione di Arturo.
La scena di Tiziano Santi è pressoché vuota: un piano inclinato con lastre tombali, sulla sinistra l'ingresso a un cimitero (perché, invece di alfa e omega, ci sono delta e omega?), sul fondo un'ardita, vertiginosa vista prospettica dal basso verso l'alto di una cattedrale gotica (forse linee sghembe di una mente distorta in preda a una momentanea perdita di lucidità) che nel secondo atto resta coi soli contrafforti delle pareti e nel finale sparisce. Una scena dominata da tinte buie e nerastre: le luci di Marco Filibeck mettono poco in rilievo sia i personaggi che i costumi storici di Giuseppe Palella.
L'ambientazione è cimiteriale: durante l’ouverture e in altri momenti le lastre tombali si aprono per lasciare uscire persone e fasci di luce. Il senso di morte domina per tutto lo spettacolo ma non c’è nella partitura e nella storia. La regia di Fabio Ceresa suggerisce entrate e uscite dalla scena a seconda delle esigenze del canto con gestualità prevedibile. Il velo nuziale è nero invece che bianco, forse in linea con l'ambientazione funebre e cimiteriale (nonostante il finale sia lieto ed Elvira, anziché morire, ritrova l'innamorato e il senno). Le masse sono quasi immobili, i gesti di tutti sembrano sospesi e rarefatti, quelli dei due bassi sul finale del secondo atto risultano poco comprensibili (movimenti scenici di Nikos Lagousakos). Non convince il saggio del regista contenuto nel libretto di sala: si vorrebbe introdurre nello spettacolo il concetto di un tempo astratto e il ritorno dei morti, suggestioni che non si colgono nella musica e nelle parole al punto che il finale resta confuso.
Il giovane direttore Matteo Beltrami, pur non offrendo una lettura particolarmente originale e marcando poco il lirismo della partitura, sostiene le voci con un fraseggio orchestrale leggero, giusto e attento: infatti il pregio dei Puritani è nelle voci che mescolano virtuosismi belcantistici e intensa recitazione espressiva, cosa meno riuscita con il secondo cast. Maria Aleida ha voce non particolarmente morbida e la sua Elvira ha difficoltà nella zona alta della partitura, mentre l’impervia parte di Arturo è sostenuta da Jesùs Léon senza risolvere come ci si aspettava gli acuti insidiosi dove la voce si sbianca (incomprensibile il duetto d'amore cantato con visi inespressivi e seduti di spalle sopra una tomba, come due estranei). Invece le due voci gravi sono belle e ben timbrate: Riccardo Zanellato è un Sir Giorgio partecipe e dolente che s’impone per autorità scenica e vocale e Julian Kim sfoggia voce piena e varietà di accento, al punto che nel finale del secondo atto il loro duetto è il momento più alto della recita (“Suoni la tromba, e intrepido”). Convince il Lord Gualtiero di Gianluca Margheri, a dimostrare come un ruolo secondario sia rilevante nell'economia dell'insieme se ben interpretato. Completano il cast Saverio Fiore (Sir Bruno) e Martina Belli (Enrichetta di Francia). Il coro è stato ben preparato da Lorenzo Fratini.
Pubblico numeroso e generoso negli applausi. L'allestimento è coprodotto con il Teatro Regio di Torino.