Al Regio di Torino tornano dopo quasi dieci anni i Puritani, in una nuova produzione coprodotta con il Maggio Musicale Fiorentino, affidati alla direzione di Michele Mariotti, direttore particolarmente versato nel repertorio belcantista. Avevamo visto la produzione a Firenze il gennaio scorso con un altro cast e, rivedendola, riconfermiamo le nostre perplessità sull’impostazione registica. Il regista Fabio Ceresa dà un taglio dark e goticheggiante a un’opera costantemente immersa in un clima macabro e funereo e a cui viene negato il lieto fine. L'ambientazione è cimiteriale: durante l’ouverture e in altri momenti le lastre tombali si aprono per lasciare uscire comparse e fuochi fatui. Il senso di morte domina per tutto lo spettacolo ma non c’è nella partitura e nella storia. La regia suggerisce entrate e uscite dalla scena a seconda delle esigenze del canto con gestualità prevedibile. Il velo nuziale è nero invece che bianco, forse in linea con l'ambientazione funebre e cimiteriale (nonostante il finale sia lieto ed Elvira, anziché morire, ritrova l'innamorato e il senno). Ma, al di là del colore, risultano inutile le coreografie generate dal velo che avviluppa inutilmente, e non senza confusioni, masse e protagonisti. Disturbano, anziché aggiungere significato, i mimi: il doppio di Elvira che si rotola fra le tombe in apertura a prefigurare la follia, le quattro figure maschili che svolazzano intorno a Elvira e attenuano la drammaticità della pazzia. Le masse sono quasi immobili, i gesti di tutti sembrano sospesi e rarefatti, quelli dei due bassi sul finale del secondo atto risultano poco comprensibili (movimenti scenici di Nikos Lagousakos). Qualche intuizione c’è, come il soprabito azzurrino di Arturo che egli abbandona sulla scena prima di mettere in salvo la Regina e che verrà dapprima indossato da Elvira in modo feticista per contrastare il trauma della perdita e poi da Riccardo in un “transfert” efficace quando Elvira folle lo scambia per l’amato. Ma non basta, e soprattutto non convince il saggio del regista contenuto nel libretto di sala: si vorrebbe introdurre nello spettacolo il concetto di un tempo astratto e il ritorno dei morti, suggestioni che non si colgono nella musica e nelle parole al punto che il finale resta confuso. La scena di Tiziano Santi è pressoché vuota: un piano inclinato con lastre tombali, sulla sinistra l'ingresso a un cimitero, sul fondo un'ardita, vertiginosa vista prospettica dal basso verso l'alto di una cattedrale gotica (forse linee sghembe di una mente distorta in preda a una momentanea perdita di lucidità) che nel secondo atto resta coi soli contrafforti delle pareti e nel finale sparisce. Una scena dominata da tinte buie e nerastre: le luci di Marco Filibeck conferiscono suggestivi riflessi bronzei o argentei alle nervature di pietra, ma lasciano nell’ombra i personaggi e non convincono i costumi storici di Giuseppe Palella fin troppo giocati sui toni del viola.
La produzione torinese si è avvalsa di un cast con nomi di richiamo internazionale a partire dalla protagonista Olga Peretyatko: oltre che bella, ha grazia innata, disinvoltura scenica e canta bene, ma la voce appare sottodimensionata e non ha quella pienezza che il ruolo di Elvira richiede; le agilità sono corrette ma senza fuochi d’artificio e si avverte qualche tensione nei sopracuti; la prova della cantante russa ha un che di irrisolto: conquista alla fine del primo atto e nel finale ma non scatena autentica emozione nella scena della pazzia. L’impervia parte di Arturo è stata sostenuta da Dmitry Korchak: il cantante se pur dotato di una bella voce corposa, di slancio e di facilità nel registro acuto ci è sembrato stilisticamente lontano dai dettami belcantisti e la sua prova, soprattutto nel primo atto, è stata inficiata da cali d’intonazione. La rivelazione è stata Nicola Ulivieri, un Sir Giorgio partecipe e dolente che s’impone su tutti dalle prime battute per autorità scenica e peso vocale; la voce è possente, la linea ben curata e trionfa in “Cinta di fiori”, splendidamente supportato da coro e orchestra. Nicola Alaimo infonde giusti accenti a Riccardo e si apprezza la cura del fraseggio, ma la voce è apparsa affaticata e di volume insufficiente per conferire giusta incisività al ruolo e ne ha risentito in particolare la grande aria di apertura. Di voce decisamente piccola l’Enrichetta di Samantha Korbey. Completano il cast il sonoro Lord Gualtiero Valton di Fabrizio Beggi e il Sir Bruno di Saverio Fiore.
Di Michele Mariotti ci piace il gesto fluido e danzante con cui imprime un fraseggio orchestrale fluido, mobilissimo, ricco di sfumature e abbandoni, ma sempre sotto pieno controllo. Una direzione che valorizza come non mai la bellezza della scrittura strumentale di Bellini che risulta romantica, vibrante e animata da un soffio vitale. Rispetto ad altre sue interpretazioni (ricordiamo l’equilibrio neoclassico della recente Norma torinese), la lettura decisamente appassionata mostra i limiti di alcune voci che, soprattutto nel primo atto, risultano sottodimensionate rispetto ai volumi orchestrali.
Molto bene il Coro del Regio diretto da Claudio Fenoglio in particolare nel sentito dialogo con Sir Giorgio del secondo atto.
Grande successo di pubblico rivolto al direttore e a tutti gli interpreti.