Venezia, teatro La Fenice, “I quatro rusteghi” di Ermanno Wolf-Ferrari
I RUSTEGHI E HARRY POTTER
Abbastanza regolarmente la Fenice, in occasione del carnevale, ripropone questa splendida opera, adatta alla follia del momento; il nuovo allestimento è per il ricorrere del centenario dalla prima rappresentazione a Monaco di Baviera.
Il regista Davide Livermore pensa che il mondo di Goldoni sia passato, inattuale. Per cui il sipario si apre rivelando un museo veneziano, una galleria con alle pareti ritratti e vedute lagunari, un ponte è sullo sfondo. Il sipario mostra una parete con su i ritratti di tutti i protagonisti della storia, ritratti “viventi” che si animano, parlano, litigano.. Nella galleria passeggiano turisti giapponesi con le onnipresenti e onnivore macchine fotografiche, studentesse, personale addetto al servizio e alle pulizie. Poi, come scende la sera e il museo si svuota, inizia la commedia. Come nelle storie di Harry Potter, i ritratti si animano e i personaggi scendono dalle tele, dando vita alla rappresentazione, orchestrata con lo spasso e la frenesia delle commedie goldoniane, calcando sulle corde del comico ma in modo assolutamente garbato e composto. Durante gli atti i turisti passano spesso, a ricordare l’invasione della città lagunare. E alla fine tutti i personaggi salgono in gondola, il giapponese scatta una foto e sul sipario che scende è raffigurato un dipinto con lo stesso soggetto. Il risultato è non solo intelligente, ma anche godibile e divertente, con la complicità dell’impianto scenico multimediale di Santi Centineo e dei costumi di un Settecento non eccessivamente opulento di Giusy Giustino.
Perfetto ed appropriato il cast, guidato, come l’ottima orchestra della Fenice, da Tiziano Severini, che sottolinea i momenti cameristici, esalta le suggestioni e le raffinatezze della partitura. Roberto Scandiuzzi è un Lunardo da manuale, accento scultoreo, voce piena, timbrata e scura che alla perfezione fraseggia con incredibile sicurezza nella tessitura, inoltre una grandissima prova d’attore. Cinzia De Mola, con il vestito orlato di pelliccia perché si suppone che l’azione si svolga effettivamente nei giorni del carnevale, è una Margarita in preda alla più totale agitazione per gli eventi, voce scura e calibrata in ogni registro. Roberta Canzian è una Lucieta giovane e simpatica, con bella voce leggera. Dario Giorgelè, Nicolò Ceriani e Franco Boscolo sono rispettivamente Maurizio, Simon e Cancian, gli altri tre “rusteghi”, appropriati ai ruoli per aspetto, comportamento e voce. Emanuele D’Aguanno è un Filipeto giovane ed acerbo, carino ed appassionato, con voce tenorile dal timbro gradevole, usata con sicurezza e precisione. Invece Marta Franco ha una voce particolare che sembra poco adatta al ruolo ed a tratti appare isolata nei momenti corali. Giovanna Donadini è una Felice piena di forza trascinante, qualche velatura nella voce compensata da straordinarie capacità attoriali. Bravi anche Antonio Lemmo (Riccardo) e Manuela Marchetto (una serva).
Alla fine il pubblico ha tributato un meritatissimo successo travolgente, con applausi infiniti.
CINQUE DOMANDE A ROBERTO SCANDIUZZI
Interessante questo Wolf-Ferrari. Come lo giudica Lei da cantante?
“Ci sono stili precisi di opera. Wolf-Ferrari ha voluto rispecchiare la trasformazione del periodo in cui lui scriveva, guardando alla forma dissonante tra le note, attingendo a stili vicini a Strauss, di matrice tedesca, ma mantenendo la radice italiana ed arrivando ad una forma nuova di costruzione musicale. Wolf-Ferrari guarda allo stile tipicamente veneziano di fare l’opera, che non aveva mai previsto il coro, molte voci più o meno comprimariali, ma di solisti, senza il coro. Il riferimento è sempre al momento di transito che il compositore stava vivendo (Boito, Falstaff di Verdi, molto vicino al cicaleccio che c’è qui). Dunque una cucitura tra l’opera veneziana del Seicento e il contemporaneo a lui, aderendola alla lingua veneziana, che è un merletto continuo, una lingua morbida e musicale”.
Lunardo sembra simile a Falstaff, di cui è quasi contemporaneo..
“È vero, Lunardo è un po’ simile a Falstaff, nel senso che simile è la volontà dei personaggi di divertirsi e di ironizzare su sé stessi, con un’infinità di riferimenti, perché il testo di Goldoni ha la precedenza. Nella serietà delle fesserie che Lunardo combina egli prende in giro se stesso, proprio per l’eccesso di serietà”.
Lei interpreta di solito ruoli di grande drammaticità, come si è trovato nei panni quasi comici di Lunardo?
“Per me Lunardo non è per niente difficile da interpretare, perché per buona parte faccio me stesso, è un tipo di spirito che io conosco e che mi sta bene addosso anche vocalmente, oltre che psicologicamente, è innato in me, un giocherellare a fare il rude e il burbero in cui sta tutto il mio essere me stesso. È una cosa tipica per un veneziano essere un po’ rude e un po’ burbero, un tipo di spirito che io conosco e che Goldoni ha descritto benissimo. È un ruolo divertente ma nello stesso tempo è un ruolo di una grande dignità, scritto in piena tessitura di basso”.
È difficile cantare in veneziano?
“Oserei poi dire che sono uno dei pochi coach di lingua, per me non solo non è difficile cantare in veneziano ma è proprio un piacere, perché queste formule musicali costruite con quella che in fondo è la mia madrelingua sono quasi eccitanti, appaganti, in quanto si riesce a dare, nel costruire i ricamini, tutte le nuance che la lingua veneziana richiede”.
Come si è trovato a lavorare con Davide Livermore?
“Con Davide mi sono divertito come poche altre volte in vita mia, perché mette sotto una lente di ingrandimento alcuni particolari della caratterialità dei personaggi, rendendoli un po’ più buffi, ma non in modo dannoso, esasperando la seriosità che poi diventa il lato comico dei personaggi”.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 22 febbraio 2006
Visto il
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La Fenice
di Venezia
(VE)