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DIARIO PERPLESSO DI UN INCERTO

I resti ancora scomodi di un esodo troppo italiano

I resti ancora scomodi di un esodo troppo italiano

Facciamo subito un piacere a Simone Cristicchi: togliamo le bandiere dal palcoscenico, non solo e non tanto inteso come luogo su cui sta portando il suo spettacolo con grande successo ma anche con estreme ed opposte reazioni in giro per l'Italia, quanto proprio dalla storia che racconta, togliamole dalla Storia delle persone, quella che per essere tale deve trovare un filo comune slegato da drappi colorati. Purtroppo questo punto di vista viene sottolineato soltanto negli ultimissimi minuti di Magazzino 18, lo spettacolo scritto con Jan Bernas e diretto da Antonio Calenda, che è costruito per evidenziare (giustamente) il silenzio maturato in sessant'anni di omertà su avvenimenti occorsi durante un secolo che prima, durante e dopo due guerre mondiali, si è riempito di atrocità giustificate da quelle guerre, mentre invece nessuna motivazione poteva essere presa a prestito per coprire infamie di tale portata.

La storia è quella dell'esodo dei Giuliani, Fiumani e Dalmati, da una terra che Cassiodoro, ministro di Teodorico, nel 537 descriveva come “ornamento all'Italia, delizia dei ricchi, fortuna ai mediocri”: l'Istria, gli infoibamenti, la scomparsa fisica ed ambientale di quegli italiani che Cristicchi evoca con le sedie vuote su cui un tempo davanti alle case stavano le persone comuni come in un quadro di paese, un lascito da trafiletto sui libri di storia che non ha trovato adeguata voce per disinteresse ed opportunità politica; un atteggiamento espunto perfino dalla politica stessa e sedimentato in coscienze sporche tutte italiane, perché non va dimenticato che gli esuli, persone coraggiose che avevano fatto una scelta, vennero accolti in maniera ripugnante anche sul suolo scelto, in quella stessa Italia che oggi si strumentalizza con opposte mire a destra e sinistra, e proprio dagli italiani.

È un terreno su cui è molto facile scivolare, ed infatti non manca l'impressione che gli autori abbiano dato vita ad una cosa più grande di loro, entrando scientemente nell'agone ed a poco valendo la supposta astrazione dalla politica, poiché è inevitabile che un racconto come quello portato avanti dall'ora e quaranta di monologo, assuma una funzione quasi didattica, e perfino di fatto creatrice di memoria condivisa, stante l'escalation del successo e l'adozione (di regime, si sarebbe detto una volta) delle tesi proposte da parte dei media, cui l'arte aggiunge solo la trasmissione delle emozioni. Sorvoliamo pertanto sulle inesattezze, su visioni magari di cattivo gusto e sulle inevitabili banalizzazioni, e guardiamo allo spettacolo in sé: l'idea di ingresso parla con una poetica (voluta?) legata al lessico esistenziale della burocrazia, che è astrazione per eccellenza dai sentimenti, una poetica dell'assenza e della lontananza emotiva, impersonata da un archivista burino (a volte anche troppo caricato, anche quando si trasforma poi in bonario filosofo) che nel Magazzino 18 sul porto di Trieste ritrova il contenuto di intere case e dell'intimità di vite scomparse in esse contenute, dalle lettere d’amore alle pagelle scolastiche, un recinto di masserizie terremotate su cui aleggia solo il suo stesso spirito.

Lo psicopompo Cristicchi porta gli spettatori dentro le case e dentro le atrocità subite dal popolo dell'esodo, situazione ideale affinché esempi e ricordi accarezzino l'empatia più stretta legata anche all'appartenenza alla patria comune (ma nessun popolo può invocare il vittimismo dell’altrui odio contro di sé, quando dimostra da solo di odiarsi e non tollerarsi...). Merito fondamentale, insomma, quello di aver riaperto le porte del Magazzino 18, di aver nominato le vittime di un esodo scomodo per tutti da ricordare, di aver acceso quei piccoli lumi non della memoria quanto proprio della conoscenza, perchè è essa stessa che manca a chi non ha letto di tutto questo nemmeno una parola sui libri di storia, di aver soddisfatto soprattutto i protagonisti di quell'esodo ed i loro discendenti che hanno riconosciuto quelle storie così come erano state tramandate loro, e di aver fatto sentire l’odore dei mobili abbandonati, le voci delle sevizie e delle atrocità compiute sotto l’ombrello impossibile di una guerra che servì solo come scusa; occasione non sfruttata a dovere, tuttavia, se stranamente l’empatia non decolla nonostante l’eccellente materiale emotivo da plasmare, come se la trasmissione fosse stata alterata da un elemento statico, con una performance la cui insufficiente quantità di pathos nel recitato e nel cantato (soprattutto nella prima parte dello spettacolo), non si rivela molto adatta al tipo di immedesimazione che avrebbe voluto ottenere.

Visto il 21-10-2014