Torino, teatro Regio, “Idomeneo” di Wolfgang Amadeus Mozart
IDOMENEO NELL'ACQUARIO
Il Regio di Torino ha un pubblico numeroso e fedele, una ricchezza rara. Idomeneo è opera poco frequentata e poco nota, sia tra le mozartiane che in generale. A Torino se ne danno ben otto recite, di cui una fuori abbonamento verso la fine del calendario, quella a cui noi abbiamo assistito: teatro pressochè gremito con tantissimi giovani delle scuole superiori (il pubblico del futuro) per uno spettacolo complesso, non tradizionale, di lettura non immediata ma che, evidentemente, coinvolge il pubblico.
Il regista Davide Livermore ci ha abituato al gusto della contaminazione e della rilettura delle opere da un punto di vista contemporaneo, situandole in un presente vicino allo spettatore ma carico di rimandi. In questo caso il mondo circoscritto e, apparentemente, felice di Creta è dentro un acquario: Elettra, dopo che Clitemnestra ed Egisto hanno ucciso Agamennone, si è rifugiata a Creta proprio per ricominciare a vivere. Durante l'ouverture davanti al sipario c'è un acquario, dominato da Idomeneo e dalle proiezioni delle sue mani e dei suoi occhi: il suo regno totalmente sotto il suo controllo, al punto che il re appare quasi come un dio, o un sacerdote sull'altare. Idomeneo scaglia dentro la bolla di vetro (sott'acqua) quelli che saranno gli elementi della scena: un letto, un'auto, un frammento di tempio. Infatti Ilia, l'amore domestico, è su un letto a baldacchino le cui cortine sono tirate da un vento invisibile. Elettra, l'amore impetuoso, esce da una macchina sportiva americana anni Cinquanta ridotta quasi a una carcassa. Sullo sfondo un frammento di tempio antico (pronao di edificio prostilo con timpano che reca il nome del re) vicino a un lampione sghembo. Il pavimento è di erba sintetica, le pareti acquose rimandano all'acquario, come se il palcoscenico fosse la proiezione del piccolo acquario in proscenio o anche l'effetto di essere sotto il mare, con la luce che filtra dall'alto (le scene sono di Santi Centineo). I costumi di Giusi Giustino facilitano il compito di visualizzare le scelte registiche con rimandi metropolitani contemporanei: abito rosso fuoco per Elettra, completo pantalone per Ilia, cappotti trasparenti di plastica tipo parapioggia per i cretesi. Le luci di Andrea Anfossi e i video di Marco Fantozzi completano la messa in scena.
La regia parte da questi elementi e si basa su essi, rendendo un mondo chiuso e asfittico, dominato da passioni implacabili e al tempo stesso in balìa di una divinità invisibile, di cui non si hanno tracce concrete e che quindi potrebbe essere anche proiezione delle trame interiori dei personaggi, tanto che, nel finale, è Idomeneo a dare un colpo all'acquario, incrinandone la superficie con una ragnatela di fratture che non potranno più essere ricomposte, nulla sarà più come prima.
Elettra è vestita di rosso fuoco, lasciva e provocante, chioma fulva e vaporosa, sciolta sulla generosa scollatura lucente di gioielli, accostata a un'auto sportiva che ricorda le sue gloria e ricchezza passate: una vamp estrema negli atteggiamenti che ricorda Venus del Tannhauser, l'amante di fuoco. All'opposto Ilia, vestita di rosa sbiadito, la gran massa di capelli raccolta in una spessa treccia castana sulla schiena, adagiata sul letto, una sobria corona il solo segno della sua regalità nella lontana e perduta Ilio: casta e quasi casalinga. La moglie terrena.
La regia si basa su simboli evocativi: nella prima aria “Padre, germani, addio!” Ilia è circondata da figure quasi di naufraghi che lei abbraccia prima che cadano a terra come privi di vita; l'aria di Elettra “Tutte nel cor vi sento” provoca l'incendio del letto di Ilia; la tempesta è fatta con proiezioni di nubi ed onde mentre una comparsa vorticante è sospesa nell'aria; nell'aria “Il padre adorato ritrovo, lo perdo” Idamante abbraccia un figurante velato che gli scivola via fra le braccia; Elettra grida “parto” ed ha con sé valigie e cappelliera; il coro canta “Qual odio, qual ira Nettuno ci mostra!” e un occhio enorme e minaccioso si materializza sul fondale; Ilia canta “Zeffiretti lusinghieri deh volate al mio tesoro” mentre è sopra una ventola che le fa volare l'abito (come Marilyn) e frammenti di carta; il sacrificio è un taglio rosso sangue sul palmo della mano.
Gli ingressi e le uscite dal coro, in una scena che non ha evidenti aperture, sono risolti grazie a velatini disegnati come le pareti.
Nel terzo atto, passata la tempesta e scossi gli animi, sono rimasti solo miseri resti, come dopo un'esplosione: a posto del tempio blocchi di marmo sparsi, a posto del letto con le cortine sventolanti solo la base, l'auto è conficcata per il muso nel terreno, il lampione è a terra. La stessa erba sintetica del pavimento ora pare lava fangosa. Nel momento più tremendo le pareti si velano improvvisamente di raso nero. L'occhio vigile del mostro è sul velatino del boccascena, ma basta un gesto di Idamante, un lampo di luce e l'occhio si incrina e si chiazza di sangue. È lo stesso Idomeneo a parlare con la “voce”: la bocca si illumina come per un esorcismo. È sempre Idomeneo che dà una martellata all'acquario, già tinto di rosso sangue, rompendolo, mentre cadono le velature nere alle pareti e si scopre un cielo sullo sfondo con nuvole passeggere, segni della pace che il re annunzia e che è tutta in quello sfondamento della scena: si torna a vedere il cielo, c'è una “uscita”, la vita va avanti.
Tomáš Netopil dirige con giusti tempi e buon sostegno ai cantanti, privilegiando una tinta più romantica rispetto all'estetica seria settecentesca; l'orchestra del Regio lo segue senza indugi, con gli interventi al fortepiano di Carlo Caputo e l'apprezzabile presenza del coro del Regio preparato da Roberto Gabbiani.
José Ferrero è un Idomeneo forte e temperamentoso ma poco scalpitante, più improntato all'accettazione di un destino superiore che non alla malinconia nevrotica per il vedere cambiare irreversibilmente il proprio mondo; la scrittura, così impegnativa nel registro centrale, non lo mette in difficoltà. Lucia Cirillo rende un Idamante di grande rilievo per la voce bella ed espressiva, che rende la gamma dei sentimenti del personaggio con una notevole ricchezza di colori, imponendosi come il vero protagonista dell'opera. Bene l'Ilia di Yolanda Auyanet e l'Elettra di Patrizia Biccirè: sui loro opposti si gioca principalmente la resa scenica dell'allestimento. Benino l'Arbace di Alessandro Liberatore. Con loro Dominic Armstrong (gran sacerdote), Lucas Harbour (la voce), Lourdes Martins e Daniela Valdenassi (cretesi), Sabino Gaita e Vladimir Jurlin (troiani) e il mimo Sax Nicosia.
Teatro pressochè gremito, tanti giovanissimi, vivo successo: nell'ottimo libretto riportare le note di regia avrebbe giovato al pubblico.
Visto a Torino, teatro Regio, il 20 gennaio 2010
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Regio
di Torino
(TO)