Milano, teatro alla Scala, “Idomeneo” di Wolfgang Amadeus Mozart
LA VITA ALLA SCALA DOPO MUTI
C’è vita alla Scala dopo Muti. Sul difficile podio il giovanissimo ma celebratissimo Daniel Harding dirige con mano sicura l’orchestra scaligera. Anzi dà una netta connotazione alla sua direzione, imprimendo una cifra personale alla partitura (un Mozart poco usuale, le arcate dei violini sono nette, senza vibrato, insoliti gli interventi degli ottoni, i legni sempre udibilissimi, tempi rapidi soprattutto a scapito del lirismo ma con moltissimi colori orchestrali, suono secco) e per questo facendo numerosi tagli, forse troppi, tra cui il finale del primo atto. Però la messa in scena inutilmente attualizza l’opera, ambientata in una scarna e brutta scenografia con costumi anonimi e regia poco incisiva. Però Bondy sa muovere bene le masse, per cui le scene gremite di persone (una comunità anonima di contadini e pescatori, o forse profughi, comunque un “quarto stato”) sono davvero belle ed efficaci. Inoltre avere spinto sull’umanità dei personaggi, musicalmente e registicamente, è la carta vincente di uno spettacolo che risulta poco coinvolgente.
Nell’overture sui violini a tratti rallentati a tratti veloci rombano i tamburi ed è presente l’oboe, mentre a sipario chiuso Ilia appare in proscenio bianca come la sabbia su cui giace, una lunga catena la trattiene mentre canta “ma quel sembiante odiare ancor non so”. Si alza il sipario ed appaiono persone che bivaccano intorno a fuochi, su un romantico mare in tempesta dipinto sul fondale. Idamante è un giovane marinaio che canta con le mani nelle tasche del giubbotto blu “riposo avrà grazie a chi estinse face di guerra ora la terra”, mentre i Troiani sono sfollati con le coperte sulle spalle ed Elettra è vestita di lungo e nero e carica d’oro, come è carica di geloso amore e di vendicativo odio. L’immagine sullo sfondo lentamente scorre, si succedono onde corrusche, una laguna placida, un mare impetuoso e spumeggiante, acque trasparenti e pacificate, cieli nordici e su questi, all’apparire di Idomeneo, una figura (Nettuno?) si staglia enorme. Il re approda in spiaggia dal golfo mistico con un remo e due marinai, vestito di blu, marinaio anch’egli prima che naufrago (poi diverrà reduce di guerra, con le piastrine di riconoscimento dei marines pendenti sul petto, maglioncino collo alto e cappottino).
Il discutibile taglio del finale dell’atto primo salda questo al secondo, giovando in continuità drammaturgica. Elettra si riflette in modo lugubre sulla paretina uscita dal grande parallelepipedo azzurro (forse l’idea dell’inaccessibile palazzo, ma se il re è così democratico da vestire da plebeo perché il palazzo è così inaccessibile?) la quale ritraendosi mostra una quantità enorme di valigie: che Elettra sia in partenza per il “Grand tour”?. Davvero efficace il “Corriamo, fuggiamo”: in tutta l’opera, in cui la presenza del coro è dominate e importantissima, il coro scaligero è ottimo e perfetto.
Nell’atto terzo il sipario si alza su una spiaggia dopo la tempesta, spazzata dal vento, bottiglie, scarpe, rami secchi, corpi abbandonati, fogli di carta. Di cattivo gusto l’apparire del mostro, la cui pelle sanguinolenta viene srotolata sul palcoscenico e presa a fiocinate da Idamante, ma nonostante ciò continua a palpitare come una enorme rossa vescica. Il finale è senza cortei, senza fasto, senza niente.
Rosanna Savoia, chiamata all’ultimo minuto a sostituire l’indisposta Camilla Tilling, è una Ilia mite e remissiva, con un’emissione sicura e recitativi buoni. Emma Bell una Elettra dal colore scuro e dalla voce vibrante, carica di passioni, emozionante nell’ultima aria “Oh! Smania oh! Furie” affrontata in modo sanguigno, da brivido nell’agghiacciante grido di follia in cui trasforma il gorgheggio. Splendida Monica Bacelli nell’impervia parte di Idamante, dal timbro brunito “maschile” e lirico. Bello, prestante e controllato nella voce, che però è debole e poco espressiva, è Steve Davislim, il cui timbro tenorile ha una velatura bruna che lo rende adatto al ruolo deciso dal regista, un re giovane ed insicuro. Francesco Meli è un Arbace combattuto ed efficace, con voce potente ma controllata e vestito con fez turco e occhialini da ebreo. Profondo mi è sembrato l’accordo e l’equilibrio che Harding ha saputo trovare tra cantanti ed orchestra.
Il resto è la leggenda che sempre accompagna le opere inaugurali della Scala. Un Idomeneo ben suonato (con tagli decisi e caratterizzanti), ben cantato ma una messa in scena debole che soprattutto non ha il carisma dell’evento che mi aspettavo. Forse si poteva fare di più, ma è importante vedere che alla Scala la vita va avanti e che promette bene. Tra le innovazioni nella partitura e nella regia mi è piaciuta quella sul finale, con un suono minaccioso di tuoni, un rombare cupo che ricorda che la partita con il Dio non è chiusa…
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 16 dicembre 2005
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)