Negli ultimi tempi il Teatro La Fenice è riuscito ad inaugurare le proprie stagioni con produzioni di altissimo livello, di quelle cioè capaci di mettere d'accordo pubblico e critica. Nel dicembre 2012, alle soglie del bicentenario verdiano e wagneriano, con il binomio Otello/Tristan und Isolde; nel dicembre 2013, presentando una partitura imponente quale L'africaine di Meyerbeer; e l'anno scorso, con un Simon Boccanegra di non comune bellezza. Quest'anno l'onore è toccato a Mozart, con un titolo meno conosciuto, almeno in Italia, qual'è Idomeneo: melodramma che, a seconda dei pareri, viene giudicato il coronamento del periodo giovanile, mentre altri vi intravvedono il preannuncio dei capolavori della maturità. Ma quale Idomeneo avrebbe composto Mozart, se avesse avuto a disposizione un librettista diverso e meno pretenzioso dell'abate Varesco, sprovvisto d'esperienza scenica e di senso teatrale? Nella corrispondenza tra Wolfgang ed il padre, che gli faceva da tramite, abbiamo copiosa traccia degli aggiustamenti che il compositore ottenne con fatica dal cappellano salisburghese, con lo scopo di conferire fisionomia credibile a versi e situazioni che a fatica abbracciavano la musica che aveva in mente. Peraltro, come annota giustamente nel suo Mozart's operas Edward Dent, l'Idomeneo risulta un'opera stilisticamente composita e non sempre ben equilibrata nelle sue componenti, e che deve tanto i propri opposti modelli d'opera: quello italiano e quello francese, quest'ultimo mediato dalle esperienze gluckiane. Capita infatti talora che questi elementi, nel loro alternarsi, finiscano per contrapporsi anziché fondersi bene insieme; però la grande forza di Idomeneo sta nel modo con il quale Mozart riesce per la prima volta ad approfondire e mettere in pieno risalto il carattere di ogni personaggio, rappresentandolo nei suoi mutamenti psicologici. Di qui pagine e pagine di musica di altissima qualità – su tutte, le arie di Idomeneo «Vedrommi intorno» e «Fuor del mar», di Idamante «No, la morte io non pavento», di Ilia «Se il padre perdei», di Arbace «Se là su ne' fati», la scena di Elettra «Idol mio...Soavi zeffiri» - in un intreccio prezioso tra acrobatica eppure intensa vocalità, e lussuosa e variegata strumentazione. Nell'insieme questo è però un melodramma che guarda un po' al passato, ed un po' al futuro: un capolavoro solo per metà, il che spiega perché, quanto a frequenza nel repertorio corrente, tra le 'grandi' opere mozartiane credo sia la meno rappresentata. Ci vuole un certo animo per proporla, e la fondazione veneziana l'ha avuto sia importandola per la primissima volta sulle scene italiane, dopo quasi due secoli di assenza – correva il lontano 1947, dirigeva Vittorio Gui, regista e coreografo era Aurel Miloss - sia inaugurando con essa la nuova stagione 2015-2016. E per sicurezza, meglio mettere al suo timone un direttore di altissima professionalità - Jeffrey Tate - ed affidargli un cast di voci che, tra luci ed ombre, appaiono comunque stilisticamente tutte pertinenti.
Come era lecito aspettarsi, il direttore inglese ha eretto - grazie anche ad un'orchestra apparsa veramente in stato di grazia, malleabile e solerte - una costruzione sonora titanica, al cui interno le preziosità strumentali, le sfumature, i chiaroscuri, le varietà dinamiche, la ricerca dei colori trovavano piena e perfetta realizzazione; e questo pur senza mai perdere di vista il labile filo narrativo che sottende questa partitura mozartiana. Un sontuoso ed ammirevole arazzo sonoro, quello che emergeva sotto la bacchetta di Tate, ricchissimo di dettagli timbrici e cromatici, in cui sia i momenti di passione sia gli indugi lirici trovano la massima rilevanza, sostenendo nel contempo adeguatamente nella sua parte di compito la compagnia di canto. Il ruolo del titolo stava nelle mani di Brenden Gunnel, che procedeva nell'irta scrittura con una avvertibile prudenza, come per sorvegliare le notevoli difficoltà tecniche della parte; e le agilità le superava tutte, va detto, evitando i passi falsi. Ma proprio per questo atteggiamento un po' guardingo, al tenore americano non riusciva l'impresa di delineare completamente la statura del sovrano cretese, la cui grande nobiltà risultava in scena un poco incompleta e smorzata. La figura del figlio Idamante (rutilante parte pensata da Mozart per musico, all'epoca il castrato Vincenzo Dal Prato) toccava alla brava Monica Bacelli, come di consueto saldissima sul terreno del fraseggio e delle colorature, elegante nei recitativi, e convincente sul piano psicologico. La ricchezza espressiva ed emotiva di Ilia non aveva al contrario sufficiente sostegno nella prestazione a tratti anonima di Ekaterina Sadovnikova, più attenta alla linea di canto tout court, che a mettere in evidenza le sfaccettature del suo personaggio. Elettra – donna piena di carattere travolta dalle passioni – trovava già miglior interprete in Michaela Kaune, soprano cui il temperamento non difetta; prova complessivamente positiva, la sua, a dispetto di qualche incertezza nella dizione, e qualche pecca ravvisabile nella linea di canto. Encomiabile per la spontanea eleganza, per la limpidezza del registro superiore, per la padronanza tecnica l'aristocratico Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani. A completare il cast stavano Krystian Adam, il Sacerdote d’Apollo, e Michail Leibundgut, la Voce dell’Oracolo, entrambi consoni al loro compito. Il coro, in questo lavoro che avverte l'influenza gluckiana, era assai impegnato: un encomio speciale quindi, per precisione e naturalezza, alla formazione veneziana preparata da Claudio Marino Moretti.
Se la componente musicale offriva per lo più ottime soddisfazioni, quella visiva dava ahimé purtroppo adito a diverse perplessità. Intanto, la debole regia di Alessandro Talevi, di fronte ad un testo ancora pienamente barocco, procedeva a tentoni tra una teatralità di sapore aulico e poco congrui suggerimenti di contemporaneità, senza riuscire nell'intento di infondere vero vigore al divenire dei fatti; e le scene di Justine Aurienti oscillavano anch'esse tra evocazioni barocche (le onde marine ottenute, come un tempo, con file di cilindri rotanti) e rappresentazioni di suggerimenti d'attualità e strampalate situazioni. Vedi la galleria del palazzo reale che pareva una wunderkammer affollata da inquietanti oggetti, la volgare abbuffata a base di aragoste e spaghetti (!!!) dei compagni cretesi, lo sgradevole defilé di pepli insanguinati, al terzo atto, dietro i quali la gelosa Elettra spia l'abboccamento amoroso di Idamante e Ilia. Quanto ai brutti costumi ed alle strane parrucche di Manuel Pedretti, era tutto un fiorire di cose già viste; e francamente inadeguate – nonché involontariamente comiche - apparivano le laconiche pantomime coreografiche di Nikos Lagousakos.
(foto di Michele Crosera)
Lirica
IDOMENEO
Un Mozart non frequente per inaugurare La Fenice
Visto il
28-11-2015
al
La Fenice
di Venezia
(VE)