Lirica
IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Figaro sancarliano tradizionale

Figaro sancarliano tradizionale

“Almaviva o sia L’inutile precauzione” (questo il titolo autentico) di Gioachino Rossini andò in scena per la prima volta a Roma “nel nobil teatro di Torre Argentina nel carnevale dell’anno 1816”, come recita il frontespizio del libretto stampato per l’occasione. Inizialmente la partitura del maestro pesarese, all’epoca appena ventiquattrenne, non ottenne il successo sperato. Ben presto, però, le avventure di Figaro, Bartolo e Rosina conquistarono il pubblico italiano ed europeo, e “Il barbiere di Siviglia” (secondo la denominazione divenuta corrente) conquistò un posto di riguardo tra i grandi capolavori del teatro - non solo musicale - dell’Occidente. Un’opera tanto spesso eseguita e perciò arcinota e popolarissima sembra non aver più nulla da rivelare; eppure risale a tempi recenti un radicale e coraggioso ripensamento delle sue valenze drammaturgiche e del suo significato ideologico. Nel suo “Il vero Figaro o sia Il falso factotum. Riesame del Barbiere di Rossini” (Torino 2008; anche in tedesco: Lipsia 2009), Saverio Lamacchia ha infatti smontato le interpretazioni convenzionali della celeberrima creazione e ha suggerito con argomentazioni convincenti di riconsiderare i rapporti di forza tra i personaggi che animano la trama. In questa acuta rilettura, al posto di un Figaro abile maestro di macchinazioni e simbolo dell’intraprendenza borghese, emerge l’immagine di un simpatico fanfarone incapace di mettere a segno i colpi che escogita. Simmetricamente, il Conte - cui il titolo originale dava preminenza assoluta - riacquista spessore (anche musicale) e si rivela il vero regista dell’azione risolutiva in quanto esponente di un’aristocrazia potente e prepotente che non abdica alla propria leadership nella società. Lo spettacolo in scena al Teatro di San Carlo di Napoli non recepisce questa proposta accattivante e storicamente fondata e, recuperando un fortunato allestimento del 1998, ripiega su posizioni decisamente tradizionali. La scelta risulta evidente già solo considerando la rinuncia - oggi difficilmente giustificabile - alla grande aria “Cessa di più resistere”, momento solistico del Conte collocato da Rossini nell’ultima scena, poco prima dell’epilogo. Quel numero è fondamentale per comprendere il vero ruolo del personaggio: dopo travestimenti e sotterfugi, Almaviva si manifesta per ciò che è realmente e recupera, attraverso il canto, la pienezza della propria funzione dominante rispetto all’intera vicenda rappresentata. Senza “Cessa di più resistere”, il Conte arretra e lascia libero campo al Barbiere e al suo trascinante istrionismo. Ciò vale tanto più per la performance di cui qui si riferisce, nella quale la presenza scenica e la vocalità vigorosa di Mario Cassi (Figaro) surclassavano il volume esiguo e la scarsa incisività di Philippe Talbot (Almaviva). Filippo Morace, che ha sostituito l’indisposto Bruno De Simone, ha tratteggiato con efficacia il carattere bizzoso e irascibile di Bartolo. Poco convincente nell’ardua parte di Rosina è parsa Elena Belfiore con la sua voce talvolta incerta e un’interpretazione indecisa tra bizze e bamboleggiamenti. Buona la prova di Roberto Scandiuzzi nei panni di Don Basilio, che tuttavia ha reso “La calunnia è un venticello” in chiave un po’ troppo flemmatica. Marilena Laurenza (Berta), Francesco Verna (Fiorello) e Mario Brancaccio (Ambrogio) hanno attorniato i protagonisti con precisione e vivacità. Maurizio Agostini ha guidato l’orchestra sancarliana non senza diligenza ma con una certa discontinuità. Gli è mancato forse l’abbandono alla febbre che percorre con pulsazione mobilissima l’intera partitura rossiniana. I tempi veloci avevano un che di meccanico, il brio pareva più imposto per convenzione che raggiunto per convinzione, e gli indugi, anziché rispondere a un naturale respiro drammaturgico, producevano frequenti ristagni e generavano un senso di scarsa tenuta complessiva. Insomma, anziché la vertigine del vortice che sprigiona energia in ogni direzione, si è percepita la regolarità asfittica del pendolo che costringe il movimento entro uno schema fisso. Vestiti da Santuzza Calì e guidati dalla regia di Filippo Crivelli (ripresa da Mariano Bauduin), i personaggi hanno agito e interagito nella bella cornice delle scene originali di Emanuele Luzzati (1921-2007), a suo tempo documentate in un prezioso opuscolo di Claudio Caserta (“Il “Barbiere” di Rossini nella scena di Luzzati”, Napoli 1999). Il tema fondamentale sviluppato dall’artista ligure è la reclusione. Grate e cancelli di diverse fogge e dimensioni dominano con insistenza tutte le ambientazioni con scoperto rinvio alla segregazione di Rosina, che, tenuta sotto costante controllo entro uno spazio a metà tra la prigione e l’harem (Bartolo non è forse uno pseudo-eunuco?), diventa emblema di un femminino intrappolato ma indomito, in attesa di essere espugnato e, con ciò, liberato.

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)