A Trieste Il barbiere di Siviglia conta una lunghissima tradizione esecutiva, che inizia già dal carnevale 1818 - dunque due anni giusti dall'apparizione romana - e procede ininterrotta sino ai nostri giorni, chiamando in scena varie nomi di spicco del belcanto italiano. Vale a dire, negli ultimi cinquant'anni, gente come Corena, Gobbi, Panerai, Bruscantini, Capecchi, Montarsolo, Nucci; oppure Alva, Palacio, Siragusa e Florez. Niente male anche sul fronte delle Rosine, fra le quali spiccano nomi quali D'Angelo, Maccianti, Casoni, Devinu, Casariego, Larmore, Comparato: oscillando dunque curiosamente fra voci sopranili e mezzosopranili, secondo l'estro della direzione artistica del momento. D'altro canto qui si esibirono nel 1922 Mercedes Capsir, e nel 1933 Toti Dal Monte – entrambe Gilda, Adina e Lucia allora apprezzatissime - le cui garrule gole da usignolo meccanico ben poco si adatterebbero, secondo i canoni attuali (e la filologia, va da sé) alla volitiva pupilla di Don Bartolo.
Dieci edizioni si sono succedute al Verdi solo dal 1949 al 2012: essendo eseguita tante di quelle volte, Il barbiere di Siviglia – due secoli di vita sulle spalle – rischia di diventare diventare alla lunga una cosa un po' banale e carica di dejà-vu. Pericolo sempre incombente, che tuttavia viene prontamente scansato da esecuzioni alla larga dalla routine com'è il caso di questa undicesima versione, approntata per l'inaugurazione della nuovissima Dubai Opera, lo scorso settembre ed ora, dopo una fugace apparizione a Pordenone, approdata sulle Rive triestine quale terzo titolo della stagione 2016/17. Il direttore è sempre lo stesso, vale a dire il giovane e talentuoso Francesco Quattrocchi, che a tale proposito nelle sue annotazioni a margine del libretto di sala offre una sua riflessione per nulla superficiale: «L'Opera oggi deve essere un elemento vivo, che necessita rinnovamento ad ogni esecuzione attraverso le capacità degli interpreti e delle acustiche». Detto, fatto: perché questa sua nitida e fluida direzione, grazie anche alla duttile Orchestra del Verdi, e ad un cast abbastanza adeguato, non solo si mostra ricca di esuberante teatralità, requisito qui di sicuro indispensabile; ma in più si mostra asciutta e compatta nella concezione di base – il vero stile rossiniano vi aleggia sempre - e poi spumeggiante e variegata nello svolgimento pratico. Altra bella qualità, la ricerca di tante piccole ed argute annotazioni strumentali – ora una glossa beffarda degli archi, ora un ricamo finissimo dei fiati - che trapuntano la trama orchestrale, ed aggiungono preziosi tocchi di pennello al lavoro dei cantanti. I quali, sollecitati a loro volta ad esibirsi in garbate colorature, sono sostenuti con savia accortezza dal suo gesto direttoriale.
Il cast da noi sentito appare peraltro ben affiatato in scena. Giorgio Misseri è un Almaviva leggerino – la tessitura è un po' bassa per lui, mi pare - ma vocalmente ben tratteggiato e mai stucchevole, benché il tratteggio della coloratura si mostri qui e lì un tantino vago; comunque, un Conte di sicura presa sulla scena. Il debutto triestino del mezzosoprano giapponese Aya Wakizono è una piacevole sorpresa: recitativi in buono stile, voce morbida e piacevolmente ambrata, fraseggio vario, i momenti delle agilità superati con fresca souplesse, colorature pertinenti ed aggraziate. Mario Cassi è un Figaro esuberante, spontaneo, immediato, ma talvolta un po' sopra le righe; tanto che la cavatina d'ingresso prende subito per la travolgente baldanza vocale, però non mi pare brilli poi di tutte le opportune sfumature. Tutto da godere invece il misurato ed umorale Don Bartolo di Domenico Balzani, cui giova assai musicalmente parlando l'intelligenza scenica ed una tecnica ben ordinata, che insieme rendono perfetto il suo personaggio. Calibrato e corretto il Don Basilio del basso Giorgio Giuseppini, cui dobbiamo una Calunnia trascinante, pur senza ghigni e borborigmi; gli interventi di Maria Cioppi (Berta), Giuliano Pelizon (Fiorello), Hektor Leka (l'ufficiale) erano consoni ai rispettivi ruoli. Il Coro diretto da Francesca Tosi ha svolto in maniera impeccabile – anche dal punto di vista attoriale - il proprio compito
Scenografia un po' curiosa, quella di questo Barbiere: perché le due imponenti quinte laterali altro non sono che parti del frontespizio palladiano – quello cioè del vicentino Teatro Olimpico, ripreso letteralmente - che venne qui impiegato in altre occasioni; mentre a mezzo d'esse stanno un'alta arcata con le nude pareti di servizio d'un teatro qualsiasi. Scena fissa, dunque, che mostra un disadorno retropalco dove l'esterno della piazza diviene subito l'interno della casa di Don Bartolo, una volta aperti i bauli che rivelano un armadio pieno di abiti, una spinetta, vari oggetti di scena. L'idea è del regista Giulio Ciabatti, l'esecutore pratico Aurelio Barbato; un felice spunto iniziale che fornisce base e modo di sviluppo ad una regia vivace e divertente, tenuta sempre sul filo dell'ironia e della leggerezza. E sopra tutto, comprensibile a tutti. I costumi non sono firmati in locandina; piace constatare comunque come appaiano confacenti al contesto generale, grazie al loro disegno settecentesco.
Alla prima, il pubblico del Verdi ha dimostrato la sua soddisfazione con caldi e prolungati applausi rivolti a tutti gli artisti. Ricordiamo che il secondo cast vede la presenza di Vassilis Kovayas, Fabio Previati, Cecilia Molinari, Vincenzo Nizzardo, Gianluca Breda.