Un teatro esaurito per una replica domenicale di un allestimento già noto la dice lunga sul potere di attrazione che il Barbiere di Siviglia ha da sempre sul pubblico, ma per poter funzionare davvero, oltre a una compagnia di cantanti-attori, ci vuole una direzione di segno forte, capace di innescare il perfetto meccanismo rossiniano: sta qui il discrimine fra genio e routine, fra evento e repertorio.
D’impronta tradizionale, ma efficace e suggestivo, l’allestimento ora riproposto dal Regio che si avvale delle raffinate scene di Luisa Spinatelli, anche artefice degli eleganti costumi.
L’impianto scenico prevede una struttura rotante curvilinea completamente rivestita di preziosi “azulejos” che funziona da esterno della casa di Don Bartolo, con il terrazzino oltre le cui inferriate e tendaggi s’intravede Rosina e che, ruotando, mostra l’interno dell’abitazione, caratterizzata da una scala che serpeggia lungo le pareti di ceramica e su cui avviene parte dell’azione scenica.
Mobili d’epoca disposti su rotelle vengono posizionati agevolmente dai personaggi sulla scena in base alle esigenze drammaturgiche, contribuendo a creare un senso di mobilità e leggerezza.
E questo Barbiere risulta leggero e godibile, rispettoso della tradizione certo, ma non polveroso, ricco di spunti ironici e dai ritmi più veloci e “moderni”.
La regia di Vittorio Borrelli, di cui si apprezza soprattutto la cura nel dettaglio del movimento scenico di singoli e masse, fondamentale per quel meccanismo ad orologeria che è il Barbiere, è ricca di micro gag che contribuiscono alla scorrevolezza della vicenda.
Come non pensare alle Nozze di Figaro quando il Conte si punge con lo spillo con cui Rosina ha sigillato il biglietto buttato dal balcone mentre il fortepiano accenna in sordina una variazione del capolavoro mozartiano? Dettagli, ma realizzati con ironia e con giusto ritmo teatrale in modo da risultar ben integrati nel plot. Don Basilio aggiunge zucchero al caffè amaro con la stessa progressione con cui canta la calunnia mettendo a dura prova i nervi dell’avaro Don Bartolo che risparmia anche su zucchero e caffè. O Rosina pronta alla fuga d’amore, ma con così tante valigie e cappelliere da rendere improponibile una discesa dal balcone. Il Conte, travestito da Don Alonso, sottolineando la “s” alla spagnola ne approfitto per sputare a Don Bartolo ma, tornato ad essere Almaviva, si compiace a firmare autografi e foto ricordo (anche a Rosina) e facendo la caricatura di un tenore-divo.
La compagnia di canto si è avvalsa di specializzati nella vocalità rossiniana.
Antonino Siragusa ha fatto del Conte di Almaviva un ruolo d’elezione e anche a Torino si è imposto come protagonista per musicalità e verve scenica. Il suo Conte, seppur capace di dolcezza e lirismo come nella serenata, è meno aulico e aristocratico di altri, ma molto ironico e divertente e sfrutta con bravura dizione e virtuosismi per generare effetti comici. Siragusa sembra per certi versi metterci in guardia dal personaggio e dalle sue intenzioni riducendolo a “maschera” (del Conte come del tenore tipo) lasciandone presagire tutte le vanità. Nonostante gli acuti siano apparsi meno sfolgoranti, incontra grande favore del pubblico e ricambia gli applausi con un bis della cabaletta di “Cessa di più resistere” risolta con virtuosa bravura.
Vito Priante è un Figaro giovane e se ne apprezza la morbidezza timbrica e un canto pulito estraneo a ogni gigioneria. Il suo barbiere è però fin troppo educato per risultare dirompente e assurgere a protagonista.
Laura Polverelli ha voce brunita e un registro centrale sontuoso adatto a screziare di sensualità Rosina. Ma, oltre a qualche disomogeneità nel canto, si è avvertita una certa prudenza nelle agilità che è andata a scapito della caratterizzazione psicologica del personaggio.
Un plauso a Paolo Bordogna per doti di accento e dizione e la capacità di giocare con parole e variazioni da autentico cantante-attore. Inoltre l’aver fatto di Bartolo un personaggio giovane e per certi versi astuto, così lontano dal cliché del vecchio tutore, giova allo sviluppo drammaturgico.
Forte di una notevole disinvoltura scenica, Nicola Ulivieri è un Don Basilio molto divertente dalla voce nitida e ben modulata.
Più rilievo del solito hanno nella produzione i ruoli minori dei due servitori: la Berta di Giovanna Donadini conferma doti di caratterista, il mimo Antonio Sarasso è un Ambrogio allampanato e polveroso. Concludono adeguatamente il cast il Fiorello di Ryan Milstaed e l’ufficiale di Franco Rizzo.
Gli elementi di novità vengono dalla direzione di Alessandro Marchi, che ha alle spalle una formazione barocca, ma la sua lettura è tutt’altro che “arida” e antiteatrale come talvolta succede con un approccio filologico da “barocchista”. Fin dalle prime battute dell’ouverture, sviscerata in ogni dettaglio, perfettamente calibrata e pulsante, cogliamo il rapporto fra Rossini e il sinfonismo tedesco e come non mai è valorizzata la maestria della scrittura orchestrale rossiniana in contrappunto alle voci. Una direzione che alla mera brillantezza di suono preferisce sottolineare, non senza disincanto, il perfetto meccanismo teatrale insito nella musica e la trama orchestrale assurge un ruolo di primo piano con il suo ritmo mutevole e incalzante colto in ogni sfumatura ed è portatrice di senso ai fini della drammaturgia. Ottima per precisione la prova dell’orchestra; bene anche il coro del Regio preparato da Claudio Fenoglio.
Teatro esaurito e calorosissimi applausi per tutti per uno spettacolo che merita di essere visto e soprattutto ascoltato.