Lirica
IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Un Barbiere di provincia

Un Barbiere di provincia

Grande interprete di razza, Gianandrea Gavazzeni, e soprattutto intellettuale finissimo. Stanno a dimostrarlo eccellenti incisioni discografiche, e scritti in cui indaga acutamente l'opera italiana da Rossini a Mascagni. Però un difetto l'aveva, ed era quello di sforbiciare le partiture di da capo e ritornelli - e talvolta di ben altro - al punto di vedersi attribuire (pare da parte di Massimo Mila) l'epiteto ironico di «Tagliator Cortese». Cosa c'entri Gavazzeni con questo "Barbiere" incontrato al Teatro Borgatti di Cento, è presto detto. C'è che se le note nel libretto di sala scritte dal concertatore e direttore Aldo Salvagno farebbero intravedere una esecuzione dalle pretese vagamente filologiche, mentre poi a conti fatti ritroviamo quel becero taglio delle scene che precedono e seguono l'arietta di Berta "Il vecchiotto cerca moglie", nelle quali Bortolo raccomanda a Ambrogio di serrare il catenaccio di casa (scena quinta),  poi scopre con Don Basilio l'intrigo tramato alle sue spalle (scena settima), ed infine dialoga con Rosina facendole credere d'essere stata ingannata da Lindoro/Almaviva e Figaro (scena ottava). Momenti fondamentali per capire come Bartolo possa scoprire e rimuovere la scala approntata per la fuga, perché Rosina respinga le avances del suo amante con lo sdegno di "Anima scellerata", donde arrivi il notaro per celebrare le nozze, e perché Bartolo giunga alla fine con i gendarmi. Sono piccole ma perniciose mutilazioni, eppure di tanto in tanto mi capita di ritrovarle. E se si poteva sopportarle ancora cinquant'anni fa, inutile dire che non sono assolutamente più accettabili ai giorni nostri.
Riesce poi arduo comprendere perché sia stato inopinatamente diviso a metà l'atto primo tra scena quarta e quinta, riprendendo cioè l'esecuzione dopo un normale intervallo a luci accese (e bar aperto) a partire dall'ingresso in scena di Rosina con "Una voce poco fa". Intervallo di certo non necessario per il modesto mutamento apportato in scena, e nocivo allo svolgimento dell'intreccio (per non parlare delle ragioni puramente musicali!).
Ma basta brontolare: per il resto, questa coproduzione dall'Associazione Musicale Praeludium di Cattolica e di vari teatri dell'area emiliano - romagnola (Cattolica, Budrio, Correggio, Forlì, Mirandola e Cento, appunto), è la piena dimostrazione di come si possa fare un'operazione intelligente e valida senza dispendio di mezzi ed unendo forze comuni, offrendo anche in provincia un prodotto di buona qualità. Complici un'orchestra snella ed efficiente - la "Bruno Maderna" di Forlì - ed un direttore di buona capacità - il sopra citato Salvagno - capace di imprimere il giusto ritmo allo spettacolo, senza sbavature e senza sbandamenti; e naturalmente una compagnia fatta in gran parte di giovani, con interpreti molto motivati e quasi tutti all'altezza del compito assegnato. Adattissimo al ruolo di Figaro il basso-baritono veneto Omar Camata: a dispetto di una leggera bronchite che tagliava il fiato, la sua verve interpretativa e la magnetica presenza scenica ha conquistato l'applauso entusiasta del pubblico centese. Chiamata all'ultimo per sopperire la defezione di Simona Baldolini, il mezzosoprano Maria Vittoria Paba ha presentato una Rosina di grande proprietà stilistica, pur assecondando quella tradizione che privilegia il lato virtuosistico del ruolo. Vivacissimo nella comica recitazione, e stilisticamente sempre appropriato il Bartolo del basso Claudio Ottino; risolto con buona abilità tecnica e naturale eleganza il Basilio del basso Antonio Marani. Il tenore Filippo Pina Castiglioni ha un po' pasticciato con la parte di Almaviva: ora sembrava convincere, ora deludeva per disinvolta imprecisione. Bene il soprano Giorgia Paci nelle vesti di Berta, come pure il baritono Riccardo Fioratti nel duplice incarico di Fiorello e dell'Ufficiale. Il coro "V. Bellini" di Budrio offriva ahimè interventi alquanto abborracciati, richiedendo puntuale sorveglianza da parte di Salvagno. Maestro al cembalo era Maria Silvana Pavan; inusuale spazio strumentale era concesso alla chitarra in orchestra, che talora interveniva in supporto o in alternativa ad esso.
Ana Rosa Orozco ha ideato scenografie luminose e di buon effetto, pur nel segno della semplicità e della facile trasportabilità da un teatro all'altro in pochi giorni: qualche bell'elemento architettonico, i pochi oggetti necessari a suggerire l'ambiente, un accorto dosaggio di luci. La regia di Massimo Pezzutti ha giocato con garbo con i personaggi e con l'intreccio, senza inventarsi stranezze; ma nella recita cui abbiamo avuto il piacere di assistere, i due buffi per eccellenza - cioè Figaro e Bartolo, Oscar Camata e Claudio Ottino - si sono concessi molte libertà, escogitando argute invenzioni estemporanee. Un tocco di gradita effervescenza in più, insomma, cosette improvvisate lì per lì che non hanno di certo nociuto allo spettacolo. Non so se pubblico che ha riempito all'inverosimile il Borgatti se ne sia accorto, anzi; fatto sta che ha tributato loro alla fine speciali applausi.

Visto il
al Giuseppe Borgatti di Cento (FE)