Prosa
IL BUGIARDO

Urge medicina morale contro il male della menzogna

Urge medicina morale contro il male della menzogna

Da piccoli ci hanno insegnato che le bugie non si dicono. Poi è venuto il momento delle ‘bugie bianche’, pronunciate perché non fanno male a nessuno, e servono quasi. Dopodichè - a molti sarà sicuramente capitato - è stata la volta dei ciarlatani, raffinata tipologia umanoide specializzata nella menzogna, convinta che se non ci si prova a spararla grossa più che si può non c’è divertimento. Per dirla con l’autore del testo, tal Goldoni da Venezia, non può essere spiritoso chi manca di buon gusto. Ma di questi buffoni che non fanno ridere, anzi talvolta feriscono, ne è pieno il mondo.

Un’analisi severa e rigorosa sulla condotta morale farebbe pensare che il Lelio de “Il bugiardo” sia proprio così… e purtroppo lo è: mascalzone infingardo, abituato a mentire per sopravvivenza, ma anche perché a furia di dirle, le menzogne prendono il sopravvento e raccontare la verità sembra quasi cosa molesta. Nella sua irruenza, il protagonista pare agire preventivamente: attacca per difendersi, ma c’è di più. Lelio si burla in modo infantile e crudele di chi crede, con troppa facilità, alle sue profferte amorose ad esempio. Come la dolce Rosaura, che scioccamente sogna l’amore ad occhi aperti ma che sarà catapultata nella dura realtà, fatta anche di un matrimonio ‘riparatore’, frettolosamente organizzato per chiudere una vicenda che, nei suoi intricati sviluppi, lascia l’amaro in bocca.

Ed è questa la sensazione che rimane a fine spettacolo. Si ride, molto, ci si appassiona alle vicende dei protagonisti, sembra quasi che si crei una sintonia con quel pestifero che è Lelio - interpretato da Maurizio Lastrico che ha non solo la bravura, ma anche la fisicità giusta per interpretare questo Lucifero dannato, abbindolatore e mistificatore della parola, mai veramente detestabile e quasi affascinante quando si proclama, molto prosaicamente, ‘adoratore del merito altrui’. Sintonia perché non si può non essere d’accordo quando dice ad Arlecchino, il suo servitore, che la natura ci ha dotati tutti di bugie e della capacità di dirle, e non c’è dunque bisogno di insegnarle. Ci si riconosce, anche se la nostra - si spera - non è una tendenza patologica a raccontar frottole. Ma ci si identifica, nel bene e nel male, anche negli altri personaggi, tutti splendidamente interpretati da attori di livello che, anche quando eccessivi nelle caratterizzazioni, con la loro recita non appesantiscono la visione e la resa complessiva ma fanno riflettere. Pantalone, un Michele di Mauro eccellente che sembra il primo a divertirsi in certe vesti, è un padre assente ma anche manesco e prepotente, Beatrice appare una civetta invidiosa talvolta petulante, così come Colombina, donna del popolo che spera nel matrimonio per migliorare il suo status sociale. Una triste sensazione di fallimento chiude il sipario, ma si rimane con il dubbio che le ‘spiritose invenzioni dello spirito’ siano armi pericolose nelle nostre mani, che non sappiamo maneggiare e che danneggiano anche chi le pronuncia, in un modo o nell’altro.

 

 

Visto il 06-03-2016