Chiunque decida di andare a vedere “Il calapranzi” dovrebbe sapere cosa lo attende. Niente di catastrofico o spaventoso, specifichiamolo. A meno che quei due paia d’occhi che cominciano ad un certo punto a fissarti, più o meno discretamente, non generino inquietudine. Nessun sipario o scenografia vuota, ma i due attori già presenti sulla scena, intenti a svolgere azioni banali o ordinarie, proprio come se stessero semplicemente vivendo la loro vita e non interpretando una parte.
Si arriva dunque in sala e sembra quasi di interrompere una tranquilla routine, forse anche un po’ noiosa, di due uomini che danno l’idea di non sapere bene come ingannare il tempo. L’inganno però, a volerlo definire in questi termini, è per il pubblico. Sebbene consapevole che quei silenzi e quella muta interazione non potranno durare a lungo, lo spettatore si accomoda e aspetta che qualcosa accada. Harold Pinter è, del resto, uno delle penne più celebri e celebrate del ‘teatro dell’assurdo’ e, probabilmente, tutta questa suspence è propedeutica a quello che avverrà sul finire, seppur priva di alcun carattere conclusivo o risolutorio.
Si tratta di due sicari, lo si capirà ben presto. Nell’attesa di ordini da un misterioso mandante, i due vivacchiano in un seminterrato collegato ai piani superiori da un calapranzi che, in questa messinscena, arriva sotto forma di secchio e piomba all’improvviso, rompendo bruscamente la tensione nervosa e spesso ingiustificata che segna i loro dialoghi. Il primo, Ben, più autoritario e irascibile, mal sopporta il collega Gus, pieno di interrogativi e bisognoso sempre e comunque di dire qualcosa. Quest’insofferenza sarà ancor più alimentata, se non deliberatamente oggetto di presa in giro di qualche personaggio senza identità, dall’arrivo di biglietti dal contenuto ben diverso da quello che si attendono. Poco importa che, con il trascorrere delle ore, la situazione non cambi. Ciò che conta attiene ad aspetti del vivere quotidiano, spesso sottovalutati o dimenticati: quante delle nostre conversazioni sono degne di nota? Quante cose stupide, inutili, prive di senso ci diciamo ogni giorno? E quante volte ci arrabbiamo per sciocchezze? È tanto breve il passo dall’intolleranza alla violenza? Cosa serve per perpetrarla arrivando fino in fondo: incoscienza e superficialità o pura freddezza e rigetto delle regole del vivere civile?
Buona la resa recitativa di Alessandro Castellucci e Francesco Cordella, efficaci e asciutti nella recita, senza inutili sbavature: vanno dritti al punto, individuando in modo preciso i caratteri e le peculiarità di queste due anime contrapposte in tutto, tranne che nell’idea condivisa di fare degli omicidi il proprio lavoro. Capaci di restituire l’ansia e l’illogicità dei rispettivi personaggi, ma anche l’ironia intrinseca e inconsapevole di certi gesti, quasi dei tic o manie che crediamo non ci appartengano, e che invece segnano anche i nostri comportamenti abituali. Così come anche l’irrisolutezza e l’incapacità dell’uomo di prendere una decisione quando serve. Come dire: tanta gazzarra per niente.