Lirica
IL CAMPIELLO

Goldoni e Wolf-Ferrari,una delizia tutta veneziana

Goldoni e Wolf-Ferrari,una delizia tutta veneziana

Si apre il sipario e sulle note dell'arioso preludio orchestrale - un Lento, senza tempo, come indica la partitura - una splendida Venezia ci appare, colta in uno dei suoi radiosi mattini. Siamo in uno dei tanti campielli punteggianti la città, che piano piano si anima di vari personaggi: gente borghese e del popolo, sopra tutto, quest'ultima spesso molto chiassosa. Una folla composta di operai, merciaioli, locandiere, commercianti di grosso e al minuto; qui, in questo angolo in verità non sempre tranquillo, siamo lontani dai palazzi dell'austera nobiltà. Un uomo si aggira, furtivo e curioso, tutto vestito di verde: è Carlo Goldoni, quell'avvocato che ha mollato la carriera forense per dedicarsi anima e corpo alla commedia di costume, il suo genere forte. E' alla ricerca di ispirazione, ruba per strada caratteri, figure, dialoghi, battute. Perché Venezia sa essere una fonte inesauribile di storie e di personaggi, offrendo una concentrazione sbalorditiva di modelli, tutti radunati in questo luogo unico nel mondo.
Questa l'immagine iniziale che de Il campiello, quinta ed ultima opera 'veneziana' di Ermanno Wolf-Ferrari, intende donarci il regista Leo Muscato; prendendo in mano con atteggiamento amorevole una commedia senza tempo, appunto quella che Goldoni scisse nel 1756 ravvivandola con la calda lingua veneziana; intreccio fatto di poco o nulla ma carico di colore, e dal bel carattere corale – nessun personaggio primeggia sugli altri – restituendocela vivida, garbata, umanissima, intrisa d'una comicità piena ma priva di forzature, anche nel tratteggiare le piccole baruffe del suo popolino. Spettacolo raffinato, solare, con molto lavoro sui singoli personaggi, che vede i tre atti riuniti in un unico movimento eseguito senza soluzione di continuità, traendone un'efficace fusione drammaturgica. Solo brevissime pause a sipario abbassato, giusto per ricombinare i particolari della piacevole scenografia di Tiziano Santi: una piazzetta attorniata da case, dove si vive una placida quotidianità, e che pian piano invecchia e si trasforma nel tempo. Nel primo atto ci troviamo nel 1756, l'anno di presentazione della commedia goldoniana; nel secondo, ambientato nel 1936 – l'anno di andata in scena dell'opera di Wolf-Ferrari, ce lo dice anche la locandina sul muro - la casa di Dona Cate e Lucieta è diventata un ufficio di Poste e Telegrafi, la locanda di Sansuga un moderno ritrovo; nel terzo ci scopriamo ai giorni nostri, così al posto dell'ufficio sta uno dei tanti negozi di souvenir, mentre la spazzatura che Donna Pasqua raccoglieva brontolando con la scopa, viene ora smaltita in un saccone di plastica nera. Anche gli abiti di Sylvia Aimonino – tutti disegnati con gusto e grande abilità  – seguono l'evolversi della moda: e così il manesco Anzoleto nel 1936 veste giustamente la camicia nera, tenendo spavaldamente il fez sulle spalle... «Cambiano gli usi e i costumi –  sostiene Muscato – ma i personaggi conservano gli stessi caratteri tratteggiati da Goldoni. Perché possono cambiare le epoche, le mode, le culture, ma non cambiano i sentimenti di fondo e le urgenze primarie degli esseri umani». A onor del vero, l'idea appare corretta ed originale, e fila a perfezione nei primi due atti; là dove, cioè, pur mutando epoca resta pienamente definita la caratterizzazione dei personaggi. Qualche crepa però nel ragionamento di Muscato si evidenzia nel terzo, dove i dialoghi stridono non poco con il moderno contesto, e le figure – specie quelle delle vecie siore, di Gasparina, del Cavalier Astolfi- perdono molta della loro peculiarità. E non ci sono buoni motivi per rinunciare ai balli dello sposalizio, né vedo perché – salvo risparmiare sui costumi – il coro debba cantare occultato nella buca orchestrale anche se, a onor del vero, l'ovattato effetto sonoro non è male. Le calibrate luci in scena si devono ad Alessandro Verrazzi.
Alla prima milanese de Il campiello agiva una compagnia stellare, dal livello irripetibile, e questo potrebbe far riflettere chi volesse considerare questo titolo con un certo sussiego: nomi come quelli di Mafalda Favero, Iris-Adami Corradetti, Margherita Carosio, Giuseppe Nessi, Giulia Tess, Salvatore Baccaloni, e a dirigere stava un certo Gino Marinuzzi. Sogni di gloria, direte...però a Trieste sono riusciti a mettere in piedi una compagnia che dir ben composta è poco, per quanto vera e vivace appare in scena; e che ha in primo piano una strepitosa Daniela Mazzuccato nei panni della vezzosa Gasparina (cui manca però la manierata, simpatica zeta nel parlare). Incredibile, per lei l'età pare non passare mai, la ricordo nel 1992 proprio in questa sala, e poi tante altre volte: sempre filiforme, sempre intonatissima e deliziosa una nota dopo l'altra, assolutamente struggente nel saluto alla città lagunare, «Cara la mia Venezia», dalla tenera e melanconica dolcezza. Le due attempate e litigiose matrone, Donna Cate Panciana e Dona Pasqua Polegana, sono assai gradevolmente rese dall'irresistibile e mordace coppia di tenori en travesti formata da Max-René Cosotti e  Alessandro D'Acrissa, scatenati in un vortice di spontanea e spassosa – ma mai ambigua – verve comica; le due giovani pute – la volitiva Lucieta e la gattamorta Gnese – sono interpretate con piacevolissimo garbo dai soprani Alessandra Marianelli e Rita Cammarano; una sbrigliata Orsola è consegnata dal soprano Patrizia Orciani; lo smaliziato Cavalier Astolfi è validamente reso dal baritono Clemente Antonio Daliotti; i due giovanotti in piena burrasca ormonale, Anzoleto e Zorzeto, ricadono rispettivamente sul brioso baritono Filippo Morace e sul bravo tenore Alessandro Scotto di Luzio; infine, il brontolone Fabrizio dei Ritorti è ben tratteggiato dal basso-baritono Nicolò Ceriani. Un lavoro di squadra veramente eccellente, pronta a divertirsi ed a divertire.
L'estrema maestria strumentale, l'aderenza alla vocalità e lo stile discorsivo di Wolf-Ferrari – capace di attualizzare nei suoi lavori lo spirito della commedia settecentesca senza rinunciare al lessico modernista – trovano confacente applicazione nella bella direzione di Francesco Cilluffo, concertatore abile e fantasioso. A prima vista sembra musica fatta di niente, poco complessa, ma non è assolutamente così: per questo si deve apprezzare questo giovane direttore torinese, pronto a sottolineare atmosfere, timbri e colori, ed a servire puntualmente lo sciogliersi del canto. Un encomio speciale all'Orchestra del Verdi, apparsa straordinariamente sfumata e trasparente, e un plauso al bravo Coro triestino preparato da Paolo Vero.
Grandissimo successo di pubblico alla prima, con generosi applausi per tutti gli interpreti ma specialmente per la Marianelli e per la Mazzuccato, vera beniamina quest'ultima degli aficionados delle scene triestine, specie se si discorre d'operetta.

Visto il 09-04-2015
al Verdi di Trieste (TS)