Marta Cuscunà inaugura la decima rassegna del Teatro Ca’ Foscari di Venezia con Il canto della caduta: l’orrore della guerra e l’utopia della pace
Una riflessione sulla perdita di orientamento del nostro presente. Una chiamata alle arti, se così si può dire, per ricomporre il presente partendo da sensibilità a volte opposte e prospettive che giocano con il tempo. E proprio il triangolo tra passato perduto, futuro utopico e fragilità del presente dirige il lavoro di Marta Cuscunà, con Il canto della caduta.
La bravissima attrice e performer friulana, coadiuvata da Paola Villani che ha progettato e realizzato l’impianto animatronico, porta in scena l’antico mito ladino di Fanes, nelle valli centrali delle Dolomiti. Un ciclo epico che racconta la fine del regno pacifico delle donne e l’inizio dell’orrore della guerra, un orrore che è appunto caduta e perdita, dove i corvi, sarcastici e cinici al tempo stesso, creature sceniche dall’anima meccanica e la voce umana, aspettano di avventarsi sulle possibili prede, mentre i pochi superstiti sopravvivono nelle cavernose viscere della terra. Tutti aspettano il tempo promesso, ovvero il ritorno della pace, scandendo l’attesa con il racconto del passato che non c’è più e il futuro che tarda ad arrivare.
Tra corvi meccanici e caverne profonde
Lo spettacolo gioca su un doppio piano. In quello superiore dove montano di guardia i corvi, inquietanti nelle loro conoscenze, a loro infatti è sostanzialmente affidato il compito di garantire lo sviluppo scenico. In quello inferiore, compresso sotto l’impalcatura metallica che costituisce la scena, due adolescenti sono incerti se restare nelle caverne o uscire allo scoperto per procurarsi da mangiare. E’ grazie a questi ultimi che il racconto si fa narrazione epica ed emotiva al tempo stesso, speranze e dolore si fondono, il tempo promesso sembra eternamente lontano, ma trova consolazione nella parola/farmaco.
La Cuscunà si muove tra i due piani fondendo la narrazione tra vocalità arcaiche e freddamente metalliche, mentre uno schermo, che a tratti nasconde la caverna, rimanda immagini di terre preistoriche e stralci di dialoghi tra combattenti di una guerra che non accenna a finire. Rumori sinistri e bagliori interrompono l’oscurità della scena, trascinando lo spettatore in una dimensione onirica, in un tempo indeterminato, ovvero in quell’Europa Neolitica, di cui parla Marija Gimbutas nel suo saggio Il linguaggio della dea, citato nelle note di regia, dove le società erano prevalentemente ugualitarie e pacifiche. Da quel momento la storia dell’uomo sembra non essere altro che una continua e inesorabile caduta verso l’orrore.