“Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’”, diceva Dostoevskij: mai così calzante questa sentenza, parlando dell’edizione teatrale in scena all’Arena del sole per la regia di Vittorio Franceschi.
La messinscena di Franceschi, che è regista ma anche attore nei panni del protagonista, è filologica e pone la sua cura e attenzione sulla recitazione più che sulla gestione dello spazio o sugli elementi scenografici. Ma pur nella sua orizzontalità - e grazie all’onestà appassionata dell’interpretazione – l’opera acquista un valore enorme quando viene messa in relazione al momento presente, al qui ed ora in cui il pubblico dell’arena, memore ancora della sfuriata di Servillo, sta guardando ed ascoltando.
Non si può infatti guardare quest’opera senza ritrovare chiare analogie con il presente. Con la crisi economica, con il mutato valore del denaro che manca a molti, anche per le necessità: il tutto, mantenendo titoli a responsabilità della classe media.
“Sono un impiegato dello stato, un copista!” cinguetta giulivo il colletto bianco di Gogol, così compreso e identificato nel suo destino da dipendente statale: la tragica fine che da copione gli spetta rende nulla questa sua vanagloria, dalla quale non ricava nemmeno il necessario per comprare un cappotto per l’inverno.
L’universalità dei significati di questa novella altrimenti edificante compare nel rivedere appunto i suoi sforzi, le sue difficoltà in quelle negate e nascoste della classe media italiana.
L’edizione teatrale taglia sul finale fantastico in cui il protagonista, fattosi fantasma, vaga per le vie di Pietroburgo rubando cappotti ai ricchi; ma non nell’evocazione della Russia dell’epoca, che include nel novero poeti ubriaconi e dame altrettanto devote alla bottiglia, nel loro tragico buonumore di condannati.