IL COMPLEANNO DI BAUDELAIRE

Baudelaire-Paudelaire

Baudelaire-Paudelaire

Credo che bisognerebbe iniziare a vivere da vecchi quando, pieno di acciacchi, vedi tutti i tuoi amici rattrappiti intorno a te; ma il tempo passa e ti fa ringiovanire e ti dà qualcosa in cui credere: sei lo stesso ma hai qualcosa in cui sperare... e quando arrivi a venti, diciotto, dodici, dieci anni ogni giorno che viene è un giorno nuovo e la vita è un miracolo.”
Ultimo giorno di vita, per Charles Baudelaire. Giace nel letto in cui troverà la morte il giorno dopo: nella realtà -non in questa versione romanzata-, egli si trovava nella casa di cura del dottor Duval, ivi giunto trovandosi ormai all'ultimo stadio della sifilide e paralizzato per l'intero lato destro del corpo, dopo un attacco di ictus, emiplegia ed afasia che lo colse mentre era in visita alla chiesa di Saint-Loup, a Namur; questa precisazione non sembri superflua.

In quel luogo, l'autore colloca il momento per il suo ultimo soliloquio che appare come l'ultima, disperata denuncia ed anzi più che altro uno sfogo definitivo, contro i mali della sua epoca, e ne marca soprattutto gli effetti a tinte volente, piuttosto che dolenti, anche con qualche scelta tecnica che si appoggia sui toni forti (ma una domanda viene subito da farsi: che bisogno c'è di amplificazione, al Teatro Nuovo?).

Il testo si prende molta, e molte libertà: la ricostruzione è riadattata allo scopo che vuole raggiungere, e però quello scopo a volte sembra ridursi ad un riassuntino, un compendio, come per definire un Bignami di colui che fu ed è uno dei più grandi letterati che abbia attraversato la nostra storia, la cui morte diviene solo il pretesto.
La parte più interessante della ricostruzione riguarda la posizione nettamente avversa a quel mondo di banchieri e del pre-industrialesimo sotto il quale Baudelaire si sentì sconfitto, o meglio di fronte al quale si sentì schiacciato dal peso della propria inanità ("cosa potrà essere il mondo, se anche Parigi è caduta?"): in questo senso, oggi sappiamo che più e meglio di molti altri, aveva avvertito la crisi della sua società, rappresentando il cambiamento, l'estraniamento dell'uomo che si sente incompreso e non riesce ad esprimere il suo senso al mondo a causa della vittoria del materialismo. Soltanto dopo di lui, Verlaine e Rimbaud trasformeranno anche il verso poetico in senso formale (mentre Baudelaire ne aveva serbato un certo gusto che si può anche osare definire ancora classico, se non altro concettualmente), ma intanto il fiore della delusione fu colto, ed insieme furono colte verità che oggi possiamo elevare alla loro ennesima potenza, poiché se Egli previde, oggi ci si trova dinanzi all'indubbia rivelazione ("Nessuno amerà più pensare... il mondo sarà l'America").
Se questo è il discorso impostato, il suo svolgimento avviene con uno sbilanciamento eccessivo sul peso del quasi-monologo affidato ad un compenetrato Giuseppe Zeno (a cospetto ad esempio del personaggio di Auguste Poulet Malassis, un Mario Santella pressoché sprecato, per larga parte del tempo troppo muto e costretto a gestualità ripetitive), ed all'interno di questo stesso sbilanciamento, ve ne è un altro: a fronte di un uomo minato nel fisico e nello spirito da anni ed anni di malattia e droghe, dalla dipendenza da laudano (e da quanto altro serva a scompaginare i sensi, ma non bastando a fuggire da essi), e con i segni ultimi scolpiti nella carne di una straziante agonia sopra descritta, ebbene, qual è il senso di far risaltare invece la fisicità dell'attore con atto ostentativo, finanche spogliandosi per mostrare muscoli e prestanza, se non per un abbrivio verso la mera recitazione di se stessi?
Fra i costumi molto curati di Mariagrazia Nicotra, le belle ed avvolgenti immagini videografiche di Claudio Garofalo ci portano spesso al cimitero di Montparnasse, dove Baudelaire venne sepolto nella tomba di famiglia, senza epitaffio alcuno, assieme al padre adottivo (proprio colui che “non poteva comprenderlo, e quindi non poteva amarlo”), seguiti poi entrambi da quella madre di cui forse si sarebbe voluto sottolineare un po' di più il rapporto col figlio: scorrono le immagini di ciò che avviene nei pressi del suo letto d'ospedale, fra amici che si alternano nelle memorie e negli elogi spesso tardivi, e discorsi che accennano appena ai temi veri per i quali oggi Baudelaire è ancora nell'Olimpo (la moralità, l'immoralità, la moralità nell'arte) ovvero le incomprensibili meraviglie che rimasero nei suoi occhi più vivi di coloro che restano in vita (“una puttana da 5 franchi che di fronte alle statue immortali arrossisce e gli chiede come si potesse far mostra di tali indecenze...”). Ci sono solo accenni, a tutto ciò, e volendo si può sentire la mancanza delle voci Jacques-Joseph Moreau, Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas... quei soci-Hashischins (già, è proprio questa, la radice etimologica di “assassini”) che attraverso hashish e stretti suoi parenti, magari all'Hôtel de Lauzun vedevano quanto e come lui. E pochi altri.

Ma non è certo questo, a mancare di più. Restando nell'ambito delle scelte dell'autore, si viene trasportati in un'alternanza fra il letto di morte e gli epitaffi sotto o sopra le righe, che restituiscono l'effetto di un feedback che funziona esattamente al contrario -facendo cioè vedere il tempo successivo anteriormente a quello reale-, puntando su elementi estetizzanti e stilistici che fanno ricordare una funzione senza dubbio rilevante (il demone dei tempi e della intolleranza dell'Arte), ma per essere questi gli ultimi istanti di vita di colui che merita un posto d'onore nella ristrettissima aristocrazia emotiva dell'Arte, colui che ha saputo dipingere il disagio che proviene dai limiti invalicabili del reale, ed ha reagito con una elicitazione del male che rimarrà da esempio per tutti e per sempre, manca qualcosa che non viene incarnato neanche da una recitazione soltanto scolastica di Jeanne Duval, già, proprio quella che fu la mulâtresse, la leggendaria ispiratrice di versi come "Tu mettrais l’univers entier dans ta ruelle / Femme impure!", la Venere Nera che fu musa di erotismo e purificazione insieme, della quale qui manca del tutto l'anima (a proposito, questa è forse la massima libertà che si è preso l'autore: ascoltare i lamenti di quella Jeanne “la cui stupidità preserva la bellezza, e allontana le rughe” al funerale, è quantomeno surreale, poiché nella realtà ella, all'ultimo stadio della sifilide ed ormai completamente cieca, morì 5 anni prima di lui, accudita fino all'ultimo da lui stesso): il nome di ciò che manca è pathos, e non è poco, per un lavoro che teoricamente punta tutto su di esso, come si conviene ad una vita che svanisce.
E quale, vita.

Visto il 28-02-2013
al Nuovo di Napoli (NA)