Scritto nel 1981, opera prima dello scrittore tedesco Patrick Süskind, Das Kontrabass (Il Contrabbasso) rappresenta un classico della drammaturgia mitteleuropea, un ritratto ironico e a tratti tragico del mondo dei musicisti e della loro, molto spesso, fragile psicologia.
Un lungo monologo in cui il protagonista, Franz Tricarico (anche se il nome non viene mai pronunciato, proprio a sottolineare l’assoluta mancanza d’identità), un suonatore di contrabbasso (uno qualunque) dell’orchestra di stato di Berlino, insoddisfatto e amareggiato dalla sua condizione di “emarginato” (non è che “terzo leggio” nella fila dei contrabbassi), manifesta tutta la sua frustrazione mista alla rozza presunzione per la convinzione di essere pur sempre un musicista di talento.
“Se c'è una cosa inconcepibile è un'orchestra senza contrabbasso. Si può quasi dire che l'orchestra ' siamo alla definizione ' comincia a esistere soltanto quando c'è un contrabbasso. Ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto. Ma non senza contrabbasso. Quello che voglio stabilire, è che il contrabbasso è di gran lunga lo strumento più importante dell'orchestra. Anche se non sembra”.
Queste le parole di Franz che, isolato dal mondo esterno, rinchiuso nella sua stanza insonorizzata al 95%, affronta in maniera nevrotica questa sua condizione, un delirio in cui non mancano punte di ironia, uno sguardo disincantato sulle debolezze e le meschinità degli uomini, un’insofferenza verso cantanti solisti, direttori d’orchestra, primi violini, colpevoli di offuscare e mortificare il suo talento.
Franz è un artista e il bravissimo Andrea Nicolini (attore e musicista di talento) ce lo racconta in tutta la sua fragilità e incapacità di riuscire ad emergere, una timidezza che lo confina nelle ultime file dell’orchestra, poco prima del timpano che pure, proprio per la sua posizione privilegiata, riesce a farsi notare.
Il suo strumento, amato e fedele compagno di vita, si rivela pian piano quasi un’ingombrante presenza, difficile da gestire, un intralcio nella vita di tutti i giorni, una presenza imbarazzante in occasione di incontri galanti, tanto che la sua vita sentimentale ne è, in qualche modo, compromessa (l’ultimo incontro risale a quattro anni prima).
Adesso c’è lei, Sara, giovanissima soprano dell’orchestra, di cui Franz è segretamente e perdutamente innamorato; lei che con la sua voce sublime riesce ad incantarlo e quasi paralizzarlo. Lei che lo fa soffrire accettando gli inviti a cena dei cantanti solisti, vecchi, brutti, sposati, e che ignora la sua esistenza; un amore sofferto, non corrisposto, che lo spinge a meditare un gesto folle e insensato (urlare il suo nome nel bel mezzo del concerto), nel tentativo di essere notato, e quindi ricordato per sempre dalla giovane, come aneddoto curioso della sua carriera. Un amore impossibile, insomma, proprio come quello verso il suo strumento, incapace addirittura di generare suoni ma solo rumori.
Luca Giberti, regista che si divide tra cinema e teatro e che ha al suo attivo diverse collaborazioni con registi importanti, riesce pienamente nel suo intento, ovvero quello di regalarci uno spettacolo semplice e autentico che colpisce proprio per la sua umanità (Non credo in un teatro di matrice esclusivamente intellettuale: inaccessibile, libresco, noioso o “per pochi. Credo, invece, in un teatro di idee dal linguaggio veramente universale, immediato).
Un’ambientazione, quella di Guido Fiorato che rispecchia fortemente il disagio interiore del protagonista a metà strada tra protezione e oppressione (Ho scelto di dare profondità alla dimensione fortemente astratta, mentale e psicologica che evoca il testo).
Uno spettacolo drammatico, poetico, pervaso da un’ironia dolceamara che emoziona e diverte non senza far riflettere.