Un Bignami su Dino Buzzati. Il Deserto dei Tartari è andato in scena sfrondato e suddiviso in quadri ai quali hanno fatto da collante frasi stralciate dal romanzo, apparse a grandi lettere sulla parete di fondo ed enfatizzate da una voce recitante dal tono istituzionale (Roberto Petruzzelli). Paolo Valerio, ideatore dell’adattamento teatrale oltre che del disegno registico, ha focalizzato il mondo militare attraverso il suo rituale. Il marciare dei soldati, l’imbracciare i fucili, lo scendere e salire le scale indifferentemente all’avanti o all’indietro hanno scandito le giornate, uniformi e grigie come le pareti dell’avamposto sperduto tra i monti. Contesto che per Buzzati non costituisce un soggetto, ma un tramite per esprimere il senso della vacuità dell’esistenza, che annichilisce la volontà.
Alla Fortezza Bastiani scorre una non-vita. Gli uomini in divisa, a uno a uno hanno indossato i mantelli, sospesi al pari del tempo, serviti a identificarli in Giovanni Drogo: notevole l’intuizione registica d’aver affidato il ruolo protagonistico a turno a tutti gli attori e aver uniformato le caratterialità dei diversi personaggi, come fossero state fagocitate dal nulla spazio-temporale onnivoro.
Di potente forza descrittiva le “storie dipinte” dallo stesso scrittore, proiettate (video Raffaella Rivi) sul fondale appeso a cordami lasciati a vista come il retropalco (scene Antonio Panzuto), a trasmettere un senso di appropriata incompiutezza. Suoni di tamburi e squilli di trombe si sono sovrapposti alle musiche (Antonio Di Pofi) eseguite al pianoforte e alla fisarmonica (Aldo Gentileschi) in alternanza al canto (Marina La Placa) modulato sulle oscillazioni elettroniche del theremin, di astratta bellissima suggestione.
Elementi ragguardevoli, nonostante i quali la poesia ha languito nelle anse dell’iter dello spettacolo, che ha giocoforza cinto di definitezza l’immaginario onirico di Buzzati. La regia ha delineato asciuttamente le situazioni metafisiche letterarie (ad esempio la morte di Angustina, interpretato dallo stesso Paolo Valerio) e ha fornito oziosi surplus chiarificatori al testo. Le anticipazioni operate sulla storia hanno esautorato la forza del fulcro narrativo, ossia l’attesa, che l’autore delinea subdola, con magistrale pathos. Kitsch la conclusiva ascesa al cielo di una poltrona di velluto rosso della casa natia, traslato registico del sorriso di raggiunta pacificazione che trasfigura il volto di Drogo mentre spira.