La prima cosa che ci si chiede appena terminato di vedere Il dolore è: ce n'era proprio bisogno?
Qual è l'urgenza che ha indotto Massimo Luconi (che firma regia, scene) e Mariangela Melato di ridurre per il teatro il racconto lungo di Marguerite Duras?
Nel testo originale, sotto forma di diario, una donna ci racconta la situazione parigina nei giorni intorno alla fine della guerra. Mentre aspetta notizie di Robert L., prigioniero dei lager nazisti, un'attesa che la angoscia e ne mina l'animo, l'io narrante, molto di più di una moglie angosciata, partecipa attivamente nella società, pubblica un giornale nel quale riporta le liste dei prigionieri liberati, fa osservazioni acute sul comportamento degli ufficiali, dei gollisti, delle donne dell'aristocrazia che vestono abiti impeccabili dopo sei anni di occupazione nazista, un io narrante che guarda la fine della guerra con intelligenza, conoscenza storica e sensibilità politica.
D'altronde chi conosce Marguerite Duras anche solo per sentito dire sa che la componente autobiografica dei suoi scritti è superiore alla media di tutti gli altri scrittori: Duras ha fatto la resistenza, ha militato nel partito comunista francese (dal quale verrà radiata nel 1950 in quanto dissidente) e anche il suo alter ego letterario de Il dolore è una agguerrita e attiva cittadina della vita politica e civile della Francia.
Al contrario, la protagonista dello spettacolo di Luconi e Melato è una donna tremebonda, affranta da un dramma privato incapace di guardare alla guerra se non per motivi personali (l'attesa del marito) o di genere (il racconto di una donna incinta che fa 22 ore di fila per ritirare i pochi effetti personali del marito deceduto) per cui gli stessi dettagli della scena che alludono all'identità di scrittrice della sua protagonista (una macchina da scrivere e tanti libri sparsi sula scrivania), rimangono segni incomprensibili, scollati da quanto si va raccontando.
Una scelta che semplifica (e umilia) il personaggio originale semplificazione per la quale cui non vediamo altra spiegazione se non l'idea che esser donna, per Melato e Luconi, vuol dire esser precipuamente moglie e madre, secondo uno dei peggiori cliché sessisti e maschilisti che gode ancora oggi, purtroppo, di buona salute ma che non appartiene certo a Marguerite Duras o a l'io narrante del suo dolore.
Quel che dà fastidio, ancor di più del sessismo becero e del trito maschilismo di cui è intrisa questa riduzione , è l'occasione mancata di portare in scena un personaggio complesso,
dai mille spunti registici e interpretativi e farne un personaggio a una dimensione sola, quella più facilmente comprensibile da tutti perchè veicolata dall'italico maschilismo. Una semplificazione che offende l'autrice ma anche l'intelligenza del pubblico che, pure, è corso numeroso ad assistere alla prima.
Tutta la regia è sviluppata su di scelte drammaturgiche che preferiscono l'effetto visivo fine a se stesso (le decine di paia di scarpe che piovono dal cielo, il fondale che si apre rivelando un uomo che dà le prime notizie dirette del marito alla protagonista - per inciso, che senso ha umiliare un attore tendolo in scena solamente per due battute? Se Cristiano Dessì è in scena una volta perchè non farlo tornare?) a una messa in scena magari più astratta ma che sa andare in profondità sui temi affrontati nel testo.
Niente si salva di questa messa in scena, nemmeno la grande prova di attrice di Mariangela Melato la quale con la sua voce poliedrica, dai mille registri, dai mille toni, compreso uno basso, caldo e umanissimo, fa intravedere quel che lo spettacolo poteva essere e non è. Il dolore universalizza un momento concreto come quello della Shoà rendendolo astorico individuando nel privato proditoriamente avulso dal politico e dal sociale, l'unica vera ragione per cui lo spettatore deve commuoversi. Una mancanza di senso storico e di responsabilità civile che tradisce una visione del Teatro come intrattenimento piuttosto che come occasione (anche) per far riflettere lo spettatore. Visione che è anche di Mariangela Melato se, dopo aver ringraziato il pubblico per gli applausi entusiasti e pieni d'amore che le tributa, saluta commossa gli spettatori auspicando che il prossimo spettacolo sia più allegro.
Se, come crediamo, il teatro tasta il polso alla salute culturale di una nazione Il dolore è un involontario grido d'allarme per l'agonia culturale che sta affliggendo l'Italia e gli italiani.