Civitanova Marche (MC), teatro Cecchetti, “Il festino” di Emma Dante
LA FAMIGLIA, LUOGO DI ATROCITA'
Dopo “La scimia” e “Cani di bancata” Emma Dante torna ad indagare temi cari e frequentati, i disagi familiari, la famiglia come prigione, la famiglia come luogo di atrocità più o meno gravi ma tutte gravi comunque, perpetrate più o meno consapevolmente, più o meno colpevolmente.
“Il festino” è una storia di solitudine e di abbandono che non scivola mai nel patetico per il respiro ampio che la drammaturgia e la regia riescono a dare, elevando la vicenda individuale verso l'assoluto o comunque l'universale, l'universalmente valido. Parte dal tragico del quotidiano. Descrive una ordinaria disperazione. E la narrazione è più dolorosa in quanto accampata in un clima di festa che suona incongruo, disarticolante: il senso del tragico si manifesta ancora più ingombrante per contrasto, un effetto opprimente, soffocante in quanto forzato, innaturale. Come quell'allegria che appare autoindotta per sopravvivere all'oggi e ai ricordi di ieri. Il domani non c'è.
La vicenda è straziante. Paride oggi compie 39 anni e li festeggia da solo, in una stanza senza porte e senza finestre, né ingressi né uscite, solo qualche decorazione, palloncini e festoni. Ha, anzi aveva, un gemello, Jacopo; il padre li ha abbandonati quando avevano dieci anni; anche la madre se n'è andata. I fratellini, trascurati, trattati con indifferenza, hanno finito per vivere in simbiosi: uno è la mente e l'altro il corpo, Jacopo è costretto su una sedia a rotelle e Paride ha problemi mentali (dice il padre “ho due figli uno più aggrippato dell'altro, uno cretino e l'altro handicappato”). Fino all'assurdo: Paride fa ginnastica e Jacopo si affatica, uno mangia e l'altro è sazio, uno si lava e l'altro è pulito. Paride vuole che Jacopo cammini, che si muova. E lo aiuta, anche a ballare, più precisamente a “muoversi insieme”. Ma durante uno di questi “giochi” Jacopo cade, muore. Paride nasconde la morte del gemello per riscuotere ancora la pensione di invalidità e soprattutto per non accettare che l'altro non c'è più. Lo nasconde a se stesso e al mondo.
Paride adulto pieno di vita. Ma anche Paride bambino rinchiuso dalla madre dentro lo sgabuzzino delle scope. Da solo, al buio. Gli mancava l'aria, all'inizio. E le scope lo guardavano male, così lunghe e secche. Poi però Paride comincia a parlare con le scope. E le scope gli rispondono. Scope che hanno una propria vita, una individualità. Per il compleanno il padre gli ha regalato uno scatolone di scope e una lettera in cui gli chiede soldi in prestito. Scatolone rosso specchiante che è al centro della scena e al tempo stesso la scena stessa. Intorno le tracce di vita, se vita può essere chiamata quella vita. Bolle di sapone, palloncini e festoni. Lucine colorate intermittenti. Per le intermittenze del cuore. E della mente.
Il linguaggio è solo vagamente palermitano nell'accento. La ritualità corporea è la consueta cifra stilistica di Emma Dante, un teatro di scatti delle membra, schiocchi di dita, gridolini, smorfie, profondi respiri, sudore, muco, saliva. Qui esaltata da una performance attoriale che non ha eguali. L'ordito è pesantemente fisico, basato su un linguaggio che si nutre di parole e corpo, umori e odori, un segno poetico deciso e riconoscibile, efficacissimo. Gaetano Bruno è sconvolgente. Cerca un equilibrio che non può trovare perchè equilibrio in questa vita non c'è. E saltella e barcolla, tra scope e lingue di Menelik. Fisicamente si muove come un uccello che non riesce a volare; anche la voce, modulata tra toni acuti e registro grave, sembra quella di un uccello, “squittisco come gli uccellini”. Gli arti sembrano scossi da un costante tremito. Impressionante la figura iniziale, confusione di membra e corpi, uno, due, nessuno. Ossessivo il ballo con le scope, quel forsennato chachacha sulle note a tutto volume di Giuni Russo, mentre la parete di fondo cambia colore. Choccante la scena il cui il fratello sembra aggrapparglisi addosso con una disperazione razionale e insieme irrazionale. Situazioni folgoranti. Invenzioni fisiche che non sono da meno alla partitura verbale. Lucida, cattiva. Dolorosa, addolorata. Bruno è così credibile e convincente che, nel suo monologare, si sentono gli echi di un coro muto eppure presente, incombente. Il fratello, il padre, la madre, le scope, l'amichetta del cuore. È sempre Paride che parla, solo un frammento è di Jacopo, straziante: “sono seduto sulla sedia a rotelle davanti alla finestra. Domani spicco il volo e mi aggrappo all'ala del primo aereo che passa”.
Lo spettacolo spacca il cuore, ritraendo con lucidità in modo nuovo i “figli di un dio minore” e lascia ammutoliti, soprattutto per la superba, sconvolgente prova attoriale di Gaetano Bruno. Teatro gremito, pubblico giovane ed entusiasta, applausi prolungati dopo un'ora senza respiro.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Civitanova Marche (MC), teatro Cecchetti, il 7 febbraio 2008
Visto il
al
Studio
di Scandicci
(FI)