Lirica
IL FLAUTO MAGICO (DIE ZAUBERFLöTE)

Papageno e il Barbera

Papageno e il Barbera

Il flauto magico si presenta fin dall’inizio come un’opera complessa di cui è possibile dare molteplici letture. Ci vengono presentate, anche con il palese intento di stupire lo spettatore, vicende che oscillano costantemente fra il comico e il tragico, all’interno di un racconto intriso di componenti fantastiche, ambientato sì in un Egitto immaginario ma, nella realtà, svincolato da qualsiasi elemento di tipo spazio-temporale, così da divenire paradigma universale. Musica e intreccio si accordano alla perfezione e accompagnano gradualmente i personaggi nel loro cammino di iniziazione che punta al superamento di quella che è la mera sfera dei sensi per tendere alla conquista finale del bene e dell’amore, realtà che non vengono concesse all’uomo perciò, se non dopo un percorso di lotta e di fatica.

Nell’allestimento proposto quest’anno al Regio di Torino, originariamente prodotto dal Teatro Massimo di Palermo, il regista Roberto Andò, messi in secondo piano tutti i simbolismi illuministici, gli ideali massonici e gli elementi giusnaturalistici, vuole porre l’accento sull'aspetto favolistico della vicenda, scevro di ogni intellettualismo, in modo da suscitare nello spettatore quello stupore originario che consenta poi a ognuno di dare una lettura personale dei fatti narrati senza sovrastrutture obbligate.

Lo spettacolo scorre via liscio grazie a una piacevolezza di fondo che non viene mai meno nel corso di tutta la serata. Le scenografie e le luci di Giovanni Carluccio sono semplici ma efficaci; in scena fanno la loro comparsa, a fianco dei protagonisti, animali dall’aspetto fiabesco, nella forma dell’enorme serpente chiomato dell’inizio o in quella assunta dai mimi travestiti che accorrono in veste di leoni, coccodrilli, gufi, gazzelle attratti dal flauto di Tamino. I richiami all’Egitto si rivelano nell’aspetto che assumono le tre porte del tempio, con ovvi rimandi a quelle visibili nella valle del Nilo, e nelle sfingi collocate all’interno; le prove dell’acqua e del fuoco si svolgono dietro un velo che si apre e chiude per far passare i due innamorati, in una essenzialità scenica che nulla toglie alla fruibilità. I protagonisti scendono spesso in platea, a cominciare da Papageno che vi fa il suo ingresso carico di gabbie di vimini, o sfruttano i praticabili ai lati dell’orchestra cercando di coinvolgere il pubblico, senza risparmiare lo stesso direttore che ad un certo punto offre proprio a Papageno un abbraccio consolatorio.

Markus Werba è, e rimane, un Papageno di riferimento: l’emissione è fluida, oltremodo naturale, priva di enfasi e senza ombra di forzature. Alla voce dal bel colore scuro si aggiunge un’ottima presenza scenica corredata da un’innegabile capacità di suggestione grazie alla quale egli sa catturare l’attenzione del pubblico, affascinato dalla figura di un Papageno ilare e al contempo ingenuo, amante del Barolo e del Barbera, mai macchiettistico o sopra le righe. Accanto a lui il Tamino di Giorgio Berrugi, forse a tratti un poco rigido in scena, ma al contempo dotato di una vocalità sonora e corposa che, nonostante qualche leggera forzatura in acuto, mostra di saper gestire con calibrato equilibrio. Molto buono pure il Sarastro di Aleksandr Vinogradov, solido nelle note gravi e sicuro nella linea di canto, che cerca di far scordare la propria giovane età vestendo i panni autorevoli del maturo sacerdote-padre. Olga Pudova interpreta, invece, una Astrifiammante a tratti priva di quella allure crudele che dovrebbe caratterizzare la figura della Regina della Notte, ma che si mostra vocalmente impeccabile mentre scala con naturalezza il registro sovracuto ed affronta senza esitazione alcuna le agilità. Voce limpida e pulita per la Pamina di Maria Grazia Schiavo, perfettamente nel ruolo per accento, colore e voluminosità del timbro. Una menzione particolare per le tre dame interpretate da Talia Or, Alessia Nadim e Eva Vogel e per le voci bianche dei tre fanciulli di Esther Zaglia, Elena Scamuzzi e Giulia Moretto. Qualche perplessità per il Monostrato di Alexander Kaimbacher che non ci è parso sempre perfettamente a fuoco, davvero pregevole, anche per capacità interpretativa la Papagena di Laura Catrani.

Corretta, ma al contempo poco vigorosa la direzione di Christian Arming che non sempre riesce ad imprimere forza particolare alla partitura, lasciando prevalere il palcoscenico sulla buca e ingenerando l’impressione di un complessivo appiattimento delle dinamiche. Buona la prova del coro.

Teatro gremito ad entusiasta, prodigo di applausi per tutti, a scena aperta e sul finale.

Visto il
al Regio di Torino (TO)