Parma, teatro Regio, “Die Zauberflöte” di Wolfgang Amadeus Mozart
L’AMORE E’ IL SIGNIFICATO SEGRETO DELLA VITA
Allestire una favola visionaria e surreale come Flauto magico senza scenografia era una sfida. Vinta da Stephen Medcalf e dal Regio di Parma. Pienamente.
Il flauto magico è un’opera piena di mistero, avvolta in un’atmosfera favolosa: tutti gli accadimenti scenici e musicali che vi si svolgono seguono una dinamica esclusivamente teatrale, sganciata però da una logica unitaria. La forma è quella del Singspiel, una forma non interamente musicata, ma con dialoghi parlati; lo stile è quello della Zauberoper, opera di argomento magico, un misto di comico e tragico, in cui elementi fiabeschi e caratteri allegorici si esprimono in un tono popolare non di commedia realistica ma di racconto fantastico, senza spazio né tempo reali.
Ma l’intervento di Mozart, anche sul libretto, come sua abitudine, ne fa non solo una fiaba in cui buoni e cattivi sono rigorosamente distinti, ma un cammino di evoluzione che coincide con un’iniziazione morale. L’elemento principale di questa conquista è l’idea che accanto alla sfera terrena dei sensi (Papageno) esista una sfera ideale, spirituale, commisurata all’uomo, dove si realizza un’aspirazione trascendentale, la conquista dell’amore, “la cosa migliore della vita, il significato segreto del vivere” (Ingmar Bergman, Lanterna magica). La progressione dell’opera serve a dimostrare che, a differenza delle fiabe, qui bene e amore non sono valori acquisiti, bensì è il risultato di una conquista.
L’allestimento visto a Parma è un non-allestimento, nel senso che la scena non c’è (il buio circonda sui tre lati il palco, fortemente inclinato) e i costumi, bellissimi, di Romeo Gigli, sono vicini ad abiti della quotidianità con sapienti tocchi che li avvicinano al mondo rappresentato, abiti di una favola fuori dal tempo e dallo spazio. Sapienti le luci, prevalentemente bianche, che nel gioco luce ombra penombra creano l’aurea fantastica necessaria.
Ma la straordinarietà della messa in scena è dovuta alla presenza degli artisti di Pilobolus Dance Theatre (coreografie di Michael Stacy), che si trasformano in animali fantastici, portali gotici, catene, serpenti, rendendo concreto il mondo onirico evocato dalla partitura e al tempo stesso lasciando agli spettatori quel minimo di indistinto, non detto, solo evocato, in cui la fantasia di ciascuno può completare, arrivando a un risultato che emozionante è dire poco.
In evidenza con luci puntate, in primo piano, solo sei oggetti simbolo, sei attrezzi di cui la scena non può fare a meno: la mela che sfamerà Papageno, la sua pianola (i campanelli), la cornice vuota che racchiude l’idea del ritratto di Pamina, il flauto magico, il pugnale della Regina, il bastone che punirà Monostatos. Ma Medcalf non cerca una lettura simbolica o allusiva (nessun riferimento a iniziazioni massoniche o a riferimenti esoterici), anzi, tutt’altro, lascia che la narrazione proceda in modo semplice e lineare.
Eccellente la compagnia di canto: Giuseppe Filianoti un Tamino dalla voce pulita e bella; Matthias Holle un Sarastro autorevole e dall’aspetto di vecchio canuto (voce piena di sentimento e calore nell’aria “In diesen heil’gen Hallen”); Cornelia Gotz una Regina della Notte inquietante e sfuggente, bravissima nella seconda celeberrima aria con appropriati vocalizzi; Daniela Bruera una Pamina volitiva dalla voce perfetta in ogni registro e dalla recitazione accattivante (dolce nel duetto con Papageno del primo atto, piena di dolore nell’aria “Ach, ich fuhl’s, es ist, verschwunden!”); Stephan Genz un Papageno ironico e scanzonato, simpatico e tenero, bravo nella linea di canto e della recitazione; Siphiwe McKenzie una Papagena credibile nei recitativi della vecchia e brava nel cantare il duetto famoso della penultima scena, con la divertente mimica dello stupore davanti a tanti piccoli Papageni; Steven Cole un Monostatos con l’anima nera come il volto; Panaiotis Iconomou un oratore e primo sacerdote dalla notevole presenza scenica e dalla vocalità brunita (con lui bravi anche gli altri sacerdoti ed armigeri, Nicola Pascoli e Riccardo Ferrari); Sabina von Walther, Ursula Hesse von den Steinen e Annette Jahns le tre dame con voci di colori leggermente diversi ma straordinarie nell’esecuzione a tre; i bambini del Tolzer Knabenchor, scalzi, in pigiama di flanella a righe, semplicemente bravissimi e meravigliosi, con i folti capelli ricci colorati di blu e oro, i colori del giorno e della notte, loro il tramite tra i due mondi. Di pari, alto livello il coro, preparato da Martino Faggiani, e l’orchestra, guidata da Jean-Christophe Spinosi con ricercatezza, attenzione e mano sicura.
La regia di Medcalf sottende tutta l’operazione, abile nel muovere i cantanti e i ballerini, abile nel posizionare il coro, parte integrante non solo del cantato ma anche dell’allestimento, abile a creare immagini indimenticabili, abile a tenere lo stupore a livelli altissimi.
Insomma uno spettacolo raffinato, elegante, suggestivo, moderato, emozionante, incredibile, imperdibile. Difficile da raccontare. Impossibile da dimenticare.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Parma, teatro Regio, il 25 febbraio 2006
Visto il
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Regio
di Parma
(PR)