Lo specchio in cui Mattia Pascal si guarda, è lo strumento che riflette la dicotomia dell’uomo contemporaneo tra l’essere e l’apparire. Condizione onnipresente di tutta la vicenda di un uomo dalle due identità: Mattia Pascal e Adriano Meis. Una reale e l’altra fittizia, destinate ad annullarsi tra loro. Quello specchio, apparentemente un semplice arredo scenico è in realtà l’emblema metaforico, che accompagna dall’inizio alla fine, la storia di un uomo creduto morto, quando invece per sua scelta, si era appropriato di una falsa identità nel tentativo di apparire a se stesso e agli altri, ciò che in realtà non è, nel tentativo di evitare ogni forma di responsabilità verso la società. Così non sarà, il destino si befferà di lui all’atto di riapparire dall’anonimato per riprendersi ciò che aveva volutamente abbandonato. Troppo tardi: Mattia Pascal subirà l’umiliazione di sentirsi dire che lui non esiste più e che sarà ricordato come il fu Mattia Pascal.
Lo specchio incrinato in cui aveva visto frammentare la propria immagine sarà girato e la sua vita, persona e ruolo scompariranno per sempre. Vittima di se stesso e del tentativo di liberarsi da un’identità per assumerne un’altra dalla quale non sarà più possibile affrancarsi per tornare indietro. Ed è quello che accade al protagonista del romanzo pirandelliano, da dove Tato Russo trae spunto per costruirne una versione teatrale, caratterizzata da una scena affascinante e visionaria. Uno spazio quasi metafisico con gli oggetti ricoperti da enormi lenzuoli scuri che prendono il volo al momento di entrare in funzione. La scenografia di grande effetto è firmata da Tony Di Ronza, le luci di Roger La Fontaine e i costumi di Giusi Giustino, contribuiscono pienamente al successo. Lo svelamento delle identità umane passa attraverso anche ciò che emerge nell’azione scenica al momento.
Ed ecco apparire da nulla scrittoi, un tavolo per le sedute spiritiche, un letto, un orologio da stazione, una panchina, e lo specchio che ci dice che la vita degli uomini è in bilico perenne tra essere e apparire. E così sarà dal principio alla fine. Segnato dall’incomunicabilità, ferita non rimarginabile nella coscienza di Mattia (un misurato Tato Russo quanto magistrale nel dirigere tutti gli attori della sua compagnia), ma anche nei personaggi che si avvicendano, e di riflesso subiscono le conseguenze di una scelta irreversibile. La struttura drammaturgica del testo risente una certa lentezza nei primi minuti dello spettacolo, segno tangibile del passaggio non semplice da romanzo a prosa teatrale, dopo di che la regia imprime nel secondo atto un avvicendarsi di quadri scenici densi di tensione emotiva e l’azione scorre bene. Emerge all’ascolto la straordinaria capacità visionaria di Pirandello, nell’essere stato capace di anticipare quella profonda crisi che vedrà come protagonista l’uomo e la società d’oggi. A tal punto da riuscire a formulare la teoria della crisi dell’io. Nel lavoro di Tato Russo emerge ciò e il registro umoristico – grottesco usato per caratterizzare alcune scene è congeniale nel gestire dinamiche così complesse. Così come era stato previsto dallo stesso Pirandello: filtrare la vita attraverso la lente dell’umorismo, i dubbi, le angosce, i tormenti esistenziali dell’uomo.
Gli attori a un certo punto indosseranno le maschere e circondano Mattia Pascal sulla scena, evocando un altro celebre capolavoro del drammaturgo siciliano: Uno, nessuno, centomila. Dietro la maschera ci siamo noi con tutte le nostre mille sfaccettature. Si distinguono per bravura le attrici Katia Terlizzi, Marina Lorenzi, Caterina Scalaprice, Carmen Pommella.